Ipazia senza miti: né Galileo in gonnella, né proto-femminista
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Silvia Ronchey riscrive la storia della filosofa pagana uccisa in Egitto da fanatici cristiani. E la colloca nel contesto della civiltà bizantina.
Nel marzo del 415 dopo Cristo, ad Alessandria d’Egitto, Ipazia fu aggredita mentre tornava a casa. I cristiani la trascinarono fuori della sua carrozza e la condussero in una chiesa dove fu denudata e fatta a pezzi a colpi di cocci aguzzi. I resti furono bruciati. Cirillo, vescovo di Alessandria e tutore delle bande di monaci autrici del massacro, alluse all’evento in un sermone: «È stata fatta tacere l’Egizia». Chi era in realtà la «filosofa» Ipazia? Perché fu uccisa e in quale contesto? Nel suo Ipazia. La vera storia (Rizzoli, pagine 319, € 19), Silvia Ronchey risponde secondo il metodo della stessa protagonista: «metodica diffidenza su quanto è stato detto» dell’egiziana e «sistematico smantellamento del suo mito letterario e della sua reinvenzione politico-ecclesiastica e storiografica». Cento pagine di documentazione, un terzo del libro, spiegano il percorso e ancorano il testo alle fonti. Silvia Ronchey svela anzitutto i travestimenti imposti ad Ipazia nei secoli. Galileo in gonnella, eroe anti-cattolico del Settecento illuminista e dell’Ottocento liberale; cripto-cristiana, proto-femminista. Martire del papismo per i protestanti, strega per i cattolici, libera pensatrice per i massoni. La vera Ipazia non fu niente di tutto ciò. Figlia di un maestro del Museo di Alessandria, bella della sua «altera avvenenza», Ipazia incarnava, scrive l’autrice, «la superiorità di casta, l’ascetica compostezza e la dote di aristocratico riserbo che unita al naturale senso del dovere sociale e dell’impegno politico contraddistingueva le classi alte nell’antichità». «Tu hai sempre avuto potere», scrisse ad Ipazia il vescovo Sinesio, suo allievo. A quale potere si riferiva? Ipazia traduceva il neoplatonismo in matematica ed astronomia. Ma le sue formule non si limitavano a rendere il cosmo intelligibile; secondo l’uso esoterico, esse iniziavano ai misteri dell’antica élite pagana la nuova classe dirigente cristiana. Bastava questo perché il vescovo Cirillo, futuro santo e dottore della Chiesa, volesse la morte di Ipazia? A pagina 175 l’autrice ci sorprende. Schiacciate le pratiche pagane, distrutto il Museo, uccisi o banditi gli ebrei, sarebbe stato normale per il tempo che Cirillo tollerasse residui di filosofia pagana inoffensivi per il suo potere. Dell’uccisione di Ipazia, insomma, non vi era necessità. E allora perché? Si evince dalle fonti, secondo l’autrice, che Cirillo cedette a un «madornale e irrazionale accesso di frustrazione», a quel sentimento che gli antichi chiamavano ftonos, all’invidia per il carisma e il prestigio della pagana. Esperta di civiltà bizantina, Silvia Ronchey ha restaurato l’icona di Ipazia. Molte delle incrostazioni accumulatesi nei secoli sono state tolte. Soprattutto, l’Ipazia di Silvia Ronchey è collocata nel suo contesto: nella «millenaria integrazione» di paganesimo e cristianesimo; in una Bisanzio che rifiutò il potere temporale di Cirillo e dei papi e preservò la libertà di Ipazia fino all’Umanesimo e al Rinascimento. Fino a noi.