Quando i cattivi erano i cristiani
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Arriva il ciclone "Agora" (vedi servizi a fianco), e si ritorna a parlare dell’astronoma, matematica e indovina Ipazia, tragica e luminosa figura di martire (pagana) della libertà di pensiero contro gli oscurantismi religiosi. A partire dal film di Amená- bar, infatti, su Ipazia si sono moltiplicati in questi giorni gli interventi dei maggiori intellettuali italiani, sono in arrivo romanzi e saggi, si moltiplicano i convegni: oggi a Milano, ad esempio, con Umberto Eco (che ha dedicato a Ipazia alcune pagine del suo "Baudolino") e Vito Mancuso, o domani a Genova, con don Andrea Gallo e Franco Cardini. La Tartaruga edizioni pubblica "Ipazia muore", un libro di Maria Moneti Codignola sulla vicenda umana della prima scienziata nella storia, mentre da Neri Pozza è uscito un romanzo - "Azazel", del noto intellettuale egiziano Youssef Ziedan - che attraverso la figura tormentata di un monaco racconta i violenti conflitti religiosi dei tempi in cui maturò la tragica fine della studiosa. Perchè questo è il punto centrale delle attuali discussioni su di lei: c’è stato un tempo in cui i "cattivi" erano i cristiani, o almeno alcune loro frange estremiste, che non sembra esagerato accostare ai moderni talebani. Questo è almeno il parere della storica e bizantinista Silvia Ronchey, che proprio a partire dal "fenomeno Ipazia" sta aggiornando in vista della ripubblicazione un suo vecchio libro sul Patriarca di Alessandria Cirillo, santo e dottore della Chiesa, ma anche mandante del brutale omicidio. «Dal punto di vista storico l’accostamento di queste frange cristiane, di bassa estrazione sociale, stanziate nel deserto, fanatiche e violente, con i moderni fondamentalisti islamici non è peregrino. In particolare gli assassini di Ipazia appartenevano alla categoria dei "parabalani" (non "parabolani" come li chiama il film, suggerendo indebite assonanze con le parabole cristiane), cioè barellieri, perchè si trattava di gente incaricata di funzioni assistenziali, in origine con lo statuto di chierici, successivamente evolutasi in una milizia efferata e fanatica». Si presenta dunque, nell’Alessandria del quarto-quinto secolo, il contrasto fra ceti periferici emergenti ed èlites urbane consolidate che ha spesso connotato i peggiori conflitti, compreso quello forse più recente e più cruento, a Sarajevo. Perchè questo fu, al fondo, la sostanza dello scontro che alla fine vide prevalere l’aggressività dei cristiani antesignani dell’eresia monofisita (che negava la natura umana di Cristo) sulla classe dirigente pagana e sulla comunità giudaica già lobby dominante, fatta oggetto di veri e propri violentissimi pogrom. «Perchè questo fu un altro aspetto del conflitto - spiega Silvia Ronchey - l’utilizzo da parte cristiana di una violenza di tipo terroristico». A farne le spese, con Ipazia, fu una concezione laica e aperta del confronto religioso e civile che si era consolidata ad Alessandria, ma anche a Smirne. Ma non furono, com’è noto, gli unici momenti della storia in cui la religione cristiana si manifestò con le stigmate della violenza piuttosto che quelle della pace. Silvia Ronchey cita, naturalmente la quarta crociata, «quando nel saccheggio di Costantinopoli del 1204 i crociati si mostrarono ben più brutali degli uomini di Mehmet II»; e ricorda anche le violenze dell’Inquisizione contro i Bogomili (altra eresia cristiana) che nei decenni successivi avrebbe di fatto consegnato la Bosnia alla religione islamica. «Questa è la lezione da trarre da questa vicenda - conclude la studiosa - proprio mentre da varie parti si teorizza il primato della Cristianità sull’Islam, che sarebbe una religione intrinsecamente violenta».