Dopo 'Homeland' intrighi e potere nella Città Segreta
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Homeland è Homeland e ce n’è una sola. Ma nell’attesa della sua ottava e ultima stagione, posticipata all’autunno, si può intanto errare negli ancora più esotici e insoliti paesaggi fisici e geopolitici di una serie politico-spionistica australiana, Secret City, di cui è da poco uscita la seconda stagione, distribuita da Netflix. Lo scacchiere globale qui è visto dagli antipodi. Al centro non sono più il mondo atlantico né le ancestrali quanto oggi tumultuose regioni della civiltà che Fernand Braudel definì Mediterraneo Maggiore — Iraq, Iran, Pakistan, Afghanistan — e che Carrie Mathison incessantemente attraversa coi suoi occhi inquieti, ma il Pacifico, con la sua superpotenza dominatrice dagli occhi a mandorla, la temibile Cina, e di qui l’America vista nel più attuale ruolo di sua principale avversaria in una guerra in gran parte segreta, la cui tensione non può non coinvolgere, terzo vertice del triangolo geografico e strategico, l’apparentemente quieta, monarchica Australia.
Dalle sale da tè di Pechino alle spiagge di Bali, dalle stanze dei bottoni di Washington alle sponde del Lake Burley Griffin sovrastato dai luminosi cieli e dai lussuosi grattacieli di Canberra, Harriett Dunkley, giornalista politica d’assalto, parente povera ma più sana di mente di Carrie, indaga, a rischio della vita propria e altrui ma a salvaguardia della libertà dei suoi connazionali, sulla “città segreta” di cospirazioni intrecciate, intrighi di palazzo, doppi giochi politici, spionistici, affaristici, coperture e menzogne a catena che tessono la la rete di cointeressenze e connivenze attraverso cui l’influenza cinese si fa strada, con millenaria sapienza corruttrice, fino alle più alte sfere del governo australiano.
Basate sui discussi libri di Steve Lewis e Chris Uhlmann, The Marmalade Files e The Mandarin Code, le due stagioni di Secret City si inseriscono nel genere “a protagonista femminili forte”, e al suo Strong Female Lead, interpretato da Anna Torv, si affianca, nella parte dell’ambigua senatrice Catriona Bailey, la grande Jacki Weaver, icona della new wave cinematografica australiana anni 70. Soprattutto compaiono, in questa produzione occidentale, figure orientali dai caratteri finalmente non stereotipi. La nuova élite cinese è messa in scena in tutta la sua ricca, variegata e sofisticata forza seduttrice. Una rappresentazione forse profetica della possibile futura classe egemone di tutti e due gli emisferi del mondo.