Gian Franco Fiaccadori (1956/2015)
Sapiente latinista
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“Filologia”, scriveva Nietzsche, “è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa: farsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento. E’ un'arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo, attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Proprio per questo ci attira e ci incanta, in un’epoca della fretta, della precipitazione indecorosa e trafelata, che vuole sbrigare immediatamente ogni cosa, anche i libri, antichi o nuovi. Per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, perché insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, con riguardi, con attenzione, lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati”.
Pochi eroi, nel nostro tempo, hanno praticato quest’arte, questa ribellione silenziosa e disciplinata al presente, quest’ostinazione a affinare l’interpretazione, perché il rigore e la delicatezza prevalgano sulla parzialità e sulla fretta.
Uno di questi eroi era Gian Franco Fiaccadori, immaturamente scomparso pochi giorni fa. Nascondeva la sua grandezza dietro un velo di riservatezza che non molti potevano sollevare. Ma il suo amore per la ricerca era aperto, estremo, nemico di ogni compromesso. Era mite con i deboli, polemico con gli arroganti, sempre misurato, mai ovvio. Si alternavano in lui la disciplina interiore dello studioso e un’avventurosità stoica, quasi militare. Era un bizantinista, un cristianista, uno storico, un paleografo, un epigrafista, uno storico dell’arte, un archeologo, un esperto dell’oriente cristiano che sapeva parlare di islam con saggezza.
Era un umanista, nulla dell’umano gli era estraneo. La sua filologia era un metodo imparziale, trasversale al tempo e allo spazio, che dalla critica dei testi si estendeva allo studio di un dipinto, un codice, un rilievo, una reliquia, una miniatura, un’epigrafe, ma anche un paesaggio o una musica popolare. Aveva un occhio d’aquila che vedeva l’insieme e il dettaglio e lo afferrava in discese mirate, per poi riguadagnare distanza, imparzialità, impassibilità.
Era stato un enfant prodige, prima allievo adolescente di Pugliese Carratelli alla Normale di Pisa, poi subito cattedratico in Italia e membro di istituzioni internazionali come Dumbarton Oaks o la Scuola archeologica italiana di Atene. Il corpus dei suoi scritti è immenso e richiede di essere interpretato nella sua ars combinatoria. Dai platonici ateniesi della corte persiana di Cosroe agli umanisti bizantini della Venezia del Quattrocento, da Cassiodoro a Teofilo Indiano, dall’ellenismo aksumita allo Yemen nestoriano, da Ravenna a Bosra, da Aquileia a Damasco, da Patmos e Mistrà alle isole Farasân, Fiaccadori ha esplorato ogni piega della civiltà irradiata dalla sapienza greca, scrutato ogni suo frammento di memoria.
Nutriva nei confronti del cursus della carriera e della vita una giustificata impazienza. La sua precocità, la sua prontezza d’intuizione e energia di studio lo facevano essere sempre in anticipo sugli altri. Lo è stato anche nella morte, l’ultimo dei suoi viaggi alla scoperta di un ignoto che invariabilmente si piegava a farsi noto dopo che lo aveva delicatamente perlustrato.