L'oscuro luogo di morte che ci affascina
Il Colosseo
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Fin dalla sua costruzione, il Colosseo fu una provocazione. L’autocratico quanto populistico e demagogico Vespasiano, imperatore-soldato succeduto all’ultimo raffinato esponente della dinastia giulio-claudia, Nerone, volle che il monumento-simbolo della propria nuova dinastia, quella flavia, fosse destinato alla plebe. E volle che quel monumento pubblico sorgesse proprio in mezzo alla lussuosa, e privata, Domus Aurea dell’aristocratico Nerone. Per la sua inaugurazione, che compì suo figlio Tito nell’80 d.C., i riti sacrificali saranno molto meno raffinati di quelli mistico-esoterici della Domus Aurea: cinquemila fiere massacrate, una carneficina che durerà cento giorni.
L’anfiteatro flavio, il più grande degli anfiteatri romani, era destinato, come e più degli altri, a soddisfare gli istinti sanguinari della massa, ad assecondarne l’aggressività repressa. Se la politica-spettacolo, nella Roma antica, era stata già ampiamente scoperta, se lo spettacolo era uno strumento non solo di potere ma anche direttamente di governo, i nostri antenati romani erano ancora più avanzati di noi nell’escogitare forme sempre più brutali e sadiche di voyeurismo per compiacere e insieme distrarre il popolo.
A differenza delle nostre televisioni, o forse solo in anticipo, avevano già scoperto che il punto di arrivo nell’escalation, lo spettacolo per eccellenza, è la morte in diretta. E la offrivano allo sguardo dei cittadini dentro gli anfiteatri, nei ludi gladiatori, che si affiancavano ai drammi sacri e alle sanguinarie rievocazioni di antiche battaglie. Consci del bisogno di violenza dei sudditi, specialmente in tempi in cui questa non si esprimeva nelle guerre, gli autocrati dell’impero la tenevano a bada surrogandola negli spettacoli del circo. Sono argomenti ampiamente analizzati dagli studi novecenteschi di storia sociale del mondo romano, come Il pane e il circo di Paul Veyne.
Era un mondo, quello dei nostri maggiori latini, dove il contatto con la morte era sempre presente e portatore, in un certo modo, di salute psichica. Ha scritto uno psicologo contemporaneo dalla profonda empatia con l’antico paganesimo, James Hillman: “Qualsiasi atto che tiene a distanza la morte ostacola la vita. Una vita non in contatto con la morte è mortale, moribunda”. L’odore dominante, per le strade della Roma antica, era quello della carne bruciata delle vittime dei sacrifici: bestie, prevalentemente, ma anche esseri umani. Come accadrà quando ai gladiatori e alle fiere si sostituiranno, nell’anfiteatro flavio, i martiri cristiani.
I sacrifici umani dei primi cristiani non porteranno grande fortuna a quel luogo. Dal VI secolo cadrà in abbandono, verrà adibito a cimitero e infestato dai dèmoni, come nello spettrale sabba notturno che racconta nella sua autobiografia Benvenuto Cellini. Se nell’anfiteatro di Arles Henry James poté ancora sentire “i sussurri e i fremiti, la fioca voce del circo che si spense millecinquecento anni fa”, l’anfiteatro flavio continuerà fino al tardo Ottocento di Daisy Miller ad essere un emblema di morte, dall’afflato lugubre e sepolcrale e contagiosamente infetto, se non letale.
Se nell’era contemporanea il Colosseo è ridiventato l’icona di Roma, se è lì che accorrono da tutto il mondo le folle dei turisti come per un richiamo magnetico, se è in quella cornice spettrale che si sono tenuti — a volte con sprezzo delle necessità di conservazione archeologica — gli odierni riti dionisiaci dei concerti pop, forse è anche per questo: la nostra nuova società di massa, che vive con l’ossessione della sicurezza e la fobia della fatalità, che tiene la morte in ogni modo a distanza, dove ormai è diventato non solo raro ma quasi illecito il morire in casa, forse è oscuramente attratta da un luogo che, come il Colosseo, insieme la rappresenta e la esorcizza, offrendo al popolo l’eco millenaria del suo farsi spettacolo.