Fiabe nascoste sotto il cielo di Penny Lane
Non dovevamo aspettare che scrivesse un libro per bambini: la vocazione di Paul McCartney per le favole era già nelle sue canzoni.
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Lennon-McCartney, Lennon-McCartney. Alla base della colonna sonora della seconda metà del Novecento, il corpus delle canzoni del quartetto dei Beatles, stanno due nomi ostinatamente saldati in una paternità bifronte, sfumata in un trompe l’oeil che ha portato due generazioni di cultori, in quei tempi, a diffondere nugoli di esegesi e congetture. Nella reticenza degli autori, ora è il computer ad azzardare l’ultima parola, attribuendo al primo non solo canzoni come Girl e In my life — su cui pochi in effetti avevano dubbi — ma addirittura Michelle, universalmente attribuita al secondo.
Né molti dubitavano che tra quei due il maggior genio creativo fosse il primo e, come spesso accade, più infelice eroe, non solo predestinato, come gli eroi del mito, a una morte precoce e violenta, ma fin dall’infanzia segnato dal trauma dell’abbandono. Mother!, “madre!”, invoca John Lennon nella canzone del primo album solista pubblicato, dopo la scissione dei Beatles, con la Plastic Ono Band dell’androgina moglie-madre Yoko. Paul McCartney, il genio minore, il comprimario, aveva avuto invece fino ai quattordici anni — quando fu segnato, come poco dopo l’amico, dal lutto materno — un’infanzia felice, addolcita da fiabe e canzoni della buonanotte. Se anche i genitori non le leggevano o cantavano personalmente, suo padre aveva ideato un all’epoca avveniristico sistema di cuffie per fare ascoltare ai bambini, dal letto, la radio. La bussola crepitante di Grandude, il nonno hippie dai capelli candidi raccolti in un codino in cui il McCartney vecchio ora si raffigura, è un non meno magico sussidio allo stupore infantile.
A chi ha allenato il suo orecchio al sound dei Beatles, e enucleato e distinto l’inconfondibile enclave creativa di George Harrison, non è mai sfuggita l’esistenza di un’ulteriore e più sottile linea, di una tonalità di controcanto, di un’altra meno sconsolata eco del mondo, che ha la nostalgica malinconia della ninnananna. L’intera opera musicale dei Beatles non sarebbe così suadente se non fosse a tratti intercalata da motivi e testi dalla mitica, archetipica capacità di sedazione, che evocano la quiete della campagna inglese o gli interni domestici suburbani di una civiltà nordica dove la durezza del clima è addolcita dal chiarore fiabesco dei children’s corners. Alcune delle maggiori canzoni dei Beatles sono, in effetti, filastrocche e ninnananne.
Golden Slumbers, Blackbird, Penny Lane, per citarne alcune. Non abbiamo mai avuto dubbi che portassero la firma di Paul. La stessa che oggi McCartney appone al breve libro scritto per i suoi nipoti, a confermarci con chiarezza, al nebuloso termine di una lunga vita, che quel senso di familiarità, di nostalgia e di consolazione che ancora oggi ci infondono le canzoni dei Beatles è cosa sua: del meno geniale, del più felice, del musicista che al furore esistenziale di John, all’estasi dei suoi sistri dionisiaci, alternò il soffio tenue del flauto di Orfeo, a condurre il corteo dei suoi fan fuori dal bosco.
Golden Slumbers, la più celebre delle ninnananne di McCartney è un adattamento di quella contenuta nella Patient Grissill, un'opera inglese del principio del Seicento, a sua volta ripresa da una fiaba medievale, Griselda, che ricorre nei Canterbury Tales di Chaucer così come nel Decameron di Boccaccio, di cui è l’ultima novella. Il testo della canzone inserita nel ’69 nell’album Abbey Road è quasi identico a quello composto da Thomas Dekker, l’autore principale dell’opera seicentesca, che suona: “Golden slumbers kiss your eyes, / Smiles awake you when you rise. / Sleep, pretty wantons; do not cry, / and I will sing a lullaby: / Rock them, rock them, lullaby. / Care is heavy, therefore sleep you; / You are care, and care must keep you; / Sleep, pretty wantons; do not cry,/ And I will sing a lullaby: / Rock them, rock them, lullaby”. La melodia, invece, è originale. McCartney, che aveva scoperto quei versi in uno spartito lasciato da qualcuno sul pianoforte di famiglia, non sapeva all’epoca leggere la musica.
Sono meno le note di The Long and Winding Road, canzone notturna, ipnotica e onirica quanto artisticamente controversa e solo tardivamente inserita, nel ’70, in Let it be, e più quelle di Blackbird a portarci sull’autentica, lunga e tortuosa strada del mito: “Merlo che canti nel cuore della notte / prendi queste ali spezzate e impara a volare, / prendi questi occhi incavati e impara a vedere. / E’ tutta la vita che aspetti / il momento di liberarti. Vola”. La musica è una variazione su un brano di Bach, la famosa Bourrée della Suite in mi minore BWV 996 per liuto. L’archetipo dell’uccello nero — il corvo, ma anche il merlo, o più spesso la merla — ricorre nel folklore di tutto il mondo. Da Esopo a Calvino abita l’immaginario delle fiabe, nelle mitologie antiche è messaggero dell’inconscio. Senza evocare la nigredo di Jung o la sua teoria dell’ombra, la ninnananna più richiesta dai nipoti di McCartney è un canto elementare di liberazione. Al punto che quando uscì nel White Album, in pieno ‘68, fu collegata, non senza forzatura, alla lotta del Black Power americano. Né l’autore, che pure l’aveva composta nelle brughiere della Scozia, si sognò di smentire una così accattivante associazione.
Scorrendo, a ritroso, dall’omaggio panico e bucolico reso alla fiaba irlandese in Mother Nature’s Son a The Fool On The Hill, in cui il gioco di specchi del Trickster o del Matto dei tarocchi, tra i riflessi del tramonto, è calato nel viaggio iniziatico del Magical Mistery Tour, si arriva alla canzone dell’infanzia per eccellenza. Penny Lane è una cartolina della reminiscenza, una giostra del karma, un carillon scintillante di nostalgia. Ed è il magnetico crocevia dei ricordi congiunti dei Beatles da piccoli, e anzitutto di John e Paul. Quest’ultimo, come è stato scritto da uno dei massimi esperti di filologia beatlesiana in quel thesaurus che è Revolution in the Head (The Beatles. L’opera completa, 1994), la “dipinse con i colori primari di un libro illustrato per bambini, osservandola con la malizia di una banda di ragazzini usciti da scuola che vagabondano verso casa”. Fu lì, “sotto l’azzurro cielo suburbano”, al capolinea degli autobus della vecchia Liverpool, davanti al famoso barbiere evocato nella prima strofa, che si congiunsero in origine i due volti, ancora infantili, dell’erma Lennon-McCartney.