Le vere parole di Don Milani
Perché il potere ha ancora paura del prete senza chiese. Dopo le polemiche scatenate dal libro di Walter Siti esce l’opera omnia del grande educatore
21/04/2017 Silvia Ronchey
Articolo disponibile in PDF
La Repubblica
Chi e’ stato Lorenzo Milani e perché la sua vita, la sua azione e la sua opera sono uno dei capisaldi del moderno pensiero laico e progressista in un paese, come l’Italia, storicamente dominato dai dogmi di chiese e ideologie spesso simmetriche e inverse? Vissuto per metà sotto il fascismo, per metà nell’Italia divisa tra democristiani e comunisti, Milani è il rampollo di un’alta borghesia ebraica di antico lignaggio, radicate posizioni liberali, sofisticate tradizioni culturali — bisnonno senatore, Freud e Joyce, Svevo e Pasquali tra le conoscenze di famiglia, l’intelligencija russa nel Dna — che si fa traditore sia del proprio ceto, sia degli schieramenti autoritari della propria chiesa, nonché, in seguito, di quelli dei partiti, che i suoi gesti provocatoriamente radicali negli anni 50 faranno più di una volta infuriare. E’ un ebreo non praticante che fa “indigestione di Cristo”, come scrive al suo mentore e direttore spirituale Raffaele Bensi. Ma la sua conversione non è certo dall’ebraismo al cristianesimo, bensì da un battesimo di convenienza, ricevuto per sfuggire alle leggi razziali, a un abito scomodo, indossato per vocazione di riscatto: quello di cercatore di verità.
Cosa ha fatto Lorenzo Milani? Si è fatto maestro, non metaforicamente ma alla lettera, nel modo più umile e concreto, prima a San Donato, poi a Barbiana. Nel suo insegnamento si è liberato del catechismo, alla lettera ma anche metaforicamente, per attuare un progetto di ‘redenzione immanente’ dell’ingiustizia sociale, ma anche, fin dall’inizio, per rovesciare l’impianto ideologico della scuola confessionale. Dove per confessione si intende quella, antica e perdurante, cattolica, ma anche l’altrettanto autoritaria catechizzazione prodotta dalle ideologie secolari a lui contemporanee. Finendo così per “smascherare l’inganno costitutivo del potere e restituire la sovranità a una manciata di subalterni inafferrabili alla scolastica marxista allora imperante”, come scrive Alberto Melloni nell’ardente introduzione all’edizione critica dell’opera omnia appena uscita nei Meridiani Mondadori (a c. di Federico Ruozzi, Anna Carfora, Valentina Oldano, Sergio Tanzarella, 2 voll. , 1391+ 1418 pp., ).
Calamitato dalla letteratura, dalla poesia, dalla pittura fin da adolescente, artista anticonformista e bohémien dalla non celata omosessualità nella Firenze di fine anni 30, è paradossale e quasi dandistico il suo primo incontro con il messale romano nella cappella della villa di famiglia: “Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei Sei personaggi in cerca d’autore?”, scrive diciottenne in una lettera all’amico Oreste del Buono. Nel ’43 entra in un seminario che per questo ventunenne ebreo, ricco, bello e tormentato è, come scrive Melloni, poco più di un “camouflage ironico”. Quando, dopo più di un decennio di attrito con le gerarchie, il suo primo libro, Esperienze pastorali, gliene guadagna definitivamente l’opposizione senza garantirgli alcuna effettiva protezione della sinistra comunista, Milani non fa che rafforzarsi nel convincimento, forse inevitabile per un intellettuale italiano, che l’unica possibile resistenza sia l’inappartenenza. Ed ecco che l’autorità ecclesiastica costituita lo esilia in quell’“angolo estremo e depopolato di arcidiocesi sul monte Giovi, senza acqua, senza corrente elettrica, posta o strada” che è Barbiana. Milani “farà dell’esilio un trono”.
Ha rifiutato a uno a uno i compromessi, sociali, ideologici e politici della cultura borghese da cui proviene. Nella sua lotta al conformismo, nella sua sfida allo schematismo ideologico, nel voto di riscatto che sia il ruolo di intellettuale sia l’abito sacerdotale ritiene gli impongano, avrà cari non solo “i mezzi poveri del proprio mestiere con la gelosia con cui il nobile decaduto tiene ai propri titoli”, ma cercherà di aprire un varco ai figli del proletariato contadino che tenta di educare proprio in quel mondo alto borghese contro il cui feroce sistema di esclusione ha lottato, arrivando a dispensare loro, ostentatamente, gli stessi privilegi materiali, applicando ai venti allievi di Barbiana “i metodi dell’educazione grande bourgeoise”: l’opera alla Scala, i soggiorni all’estero (frutto di un lavoro organizzativo di indescrivibile durezza), addirittura la piscina, inaugurata a fine estate del ’62. La passione per un utopistico ma non meno letterale ‘riscatto del tempo penultimo’, in cui l’avanguardia contadina che ha riacquistato la parola diventa élite, domina ogni suo gesto, sempre politico, mai settario, sempre etico, mai arbitrario.
Ogni intellettuale è un prete mancato (o un monaco mancato). Il problema è che molti intellettuali mancati si fanno preti — di qualunque chiesa, confessionale o secolare, per innato dogmatismo, per ansia di assoluzione anticipata e garantita. Don Milani non era né l’uno né l’altro, e per questo la sua profonda laicità è stata tenuta per più di mezzo secolo in ostaggio da più cleri. E’ d’altronde lui stesso, ancora in vita, a intuire il rischio di strumentalizzazione ideologica, di “esproprio della sua parabola”, di dissipazione della durissima disciplina che si è dato; a spiazzare i giovani giornalisti esponenti della “soffocante cultura italiana degli intellettuali organici che si specchiavano nel sogno di un’egemonia”, scrive Melloni, in quella lezione di giornalismo, intitolata Strumenti e condizionamenti dell’informazione, che ancora oggi sarebbe utile ascoltare.
Lorenzo Milani muore nell’estate del ‘67 e la sua ricerca, sarà, scrive Melloni, “rapita dal Sessantotto”, che farà di lui “l’icona di un mondo che gli era estraneo”, postumamente affiliata da un’opposizione politica che ha avuto tra le sue responsabilità, peraltro condivise con demagogici schieramenti di governo del nostro paese, la sistematica decostruzione del suo sistema scolastico. Proprio quello che a Milani stava più a cuore, che auspicava acattolico e aconfessionale, che vedeva come unico vero strumento rivoluzionario — ma certo solo se e quando “dota i tacitati della parola”, non quando li riduce a un nuovo, subculturale silenzio. Oggi, nell’anno in cui ricorre il cinquantenario della sua morte, sembra che da più parti si cerchi di infangare la memoria di Lorenzo Milani. Sto con la professoressa, è il titolo di un recente articolo apparso sul Sole 24 Ore, con allusione al suo scritto pià celebre (ma forse meno significativo di altri), Lettera a una professoressa. Altrove si è cercato di ‘pasolinizzare’ la sua figura e addirittura, nel recente romanzo di Walter Siti, di suggerirlo, contro ogni evidenza, pedofilo. Ma nessun equivoco è possibile a partire da oggi. Nei due volumi dell’opera omnia si dispiega allo sguardo diretto del pubblico la scrittura provocatoria e indocile di questa figura di prete divenuta un punto di riferimento per i laici proprio per avere lottato tutta la vita contro gli opportunismi di chi cerca la protezione dei partiti, delle sette e delle chiese.