Bob Dylan: un classico universale. La sua voce è la liturgia dei nostri tempi
Già negli anni Settanta alla Normale di Pisa si studiava la complessità abissale della sua opera e i rimandi a Whitman, Blake e Coleridge
16/10/2016 Silvia Ronchey
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La Repubblica
Alla metà degli anni 70, alla Scuola Normale di Pisa, poteva accadere che un austero assistente di filologia classica invitasse uno o due studenti meritevoli a sedere compostamente nella Sala Musica, che disponeva come non tutti allora di un impianto hi-fi, per ascoltare fluire dal 33 giri il lungo, cangiante tessuto di strofe di Sad Eyed Lady of the Lowlands, apprezzandone parola per parola l’oscurità da ode pindarica.
I testi di Dylan erano pubblicati allora in uno spesso ‘paperback poeti’ Newton Compton dalla copertina morbida, spesso usurata per la consultazione. Quei testi erano un thesaurus a sé, che andava confrontato, studiato e anche interpretato, non senza difficoltà, in un dibattito che ben prima dei tempi di internet attraversava i continenti e portava a congetture esegetiche a volte maniacali, come ad esempio quella sul significato (letterale o metaforico?) della ‘soglia’ evocata in Temporary Like Achilles. Già negli anni 70 il corpus di Dylan era una ‘scrittura’ e ciò che provocava in noi denunciava la forza di un classico. Nella distinzione crociana tra poesia e non poesia, nessuno di noi allora era sfiorato dal dubbio che quella non fosse poesia. Era poesia melica, destinata, cioè, ad essere cantata.
Analizzavamo i versi di Dylan non troppo diversamente da quelli di Pindaro. Anche i greci dietro le loro poesie avevano la musica. Chissà se nella fonetica degli antichi dialetti greci, nel vocalismo del dorico o dello ionico, si avvertiva qualcosa di simile al vertiginoso artificio della voce di Dylan, a quell’estenuarsi espressionistico della parlata dell’ebreo del Minnesota nella cantilena del black American, con le vocali che si allungavano e si stringevano in una prosodia spiazzante, in una metrica stridula e singhiozzante di lunghe e brevi che la musica sosteneva, ma non creava, perché a crearla era una volontà poetica.
Nella lirica monodica di Dylan, l’ebreo che cantava come un nero e faceva risuonare insieme le grida dei ghetti in fiamme e le sprezzature dell’upper class newyorkese, l’intera cultura americana partecipava coralmente. Era la sintesi di molte memorie: la cantilena del sud, dei lamenti degli schiavi, la voce ancestrale dell’Africa, da cui dipende com’è noto la melodia di Blowin’ in the Wind; la tradizione dei folksinger militanti come l’amato Woody Guthrie, dei bardi erranti, dei vagabondi che percorrevano il paese dormendo sui treni e seminando le praterie di desolati blues; ma anche le antiche radici letterarie europee, che fin dal nome d’arte, scelto in omaggio a Dylan Thomas, riandavano al romanticismo di Poe, all’imagismo di Pound, al flusso di coscienza di Joyce, a Eliot, a Brecht e Weil, più volte citati, ma anche a Rimbaud e Verlaine, entrambi esplicitamente menzionati, alla visionarietà mistica di Whitman, che sfocerà in testi propriamente profetici come All Along the Watchtower (ispirato a Isaia 21, 1-12), o misterici, come Isis. Dylan era personalmente legato alla controcultura di Kerouak e Ginsberg, di Burroughs e della beat generation, ma il suo approccio alla rivoluzione psichedelica attingeva di prima mano alle visioni dei grandi dionisiaci inglesi come Coleridge; e la passione per Blake è confermata dall’incisione, insieme a Allen Ginsberg, delle sue poesie musicate. In tutto questo, in quella che lui stesso ha definito un’arte “storico-tradizionale”, Dylan ha riunito la complessità abissale dell’America.
E’ non solo banale ma tautologico, e ciò nonostante vero, dire che in Dylan l’Accademia di Svezia ha voluto premiare l’unione inestricabile di cultura d’élite e di massa propria di una particolare America che taceva dai tempi di Steinbeck: non solo il pacifismo, non solo il ricordo dell’impegno politico degli anni del movement (più volte rinnovato: pensiamo alla versione di Masters of War ispirata nel ‘91 alla Guerra del Golfo), ma una lunga esperienza di ricerca di liberazione interiore e collettiva.
Il corpus di Dylan non è la colonna sonora del nostro tempo: i suoi testi sono preghiera, poesia liturgica, una liturgia delle ore che affiora nelle nostre vite e su cui almeno due generazioni, nel mondo di oggi, trovano un riferimento comune a valori riconosciuti cui fare appello. La comunanza mnemonica di quella dialektos, la condivisione di quella koiné liturgica contrassegna, del mondo di oggi, la più ampia delle élites: chi ha ascoltato Dylan, chi si è iniziato in vari gradi al suo bizzarro mistero, che si tratti di Andy Warhol o di Steve Jobs, di un professore di college o di un broker di borsa o di un homeless nero. Il Nobel a Dylan è un evento epocale perché quali ne siano state le sue immediate intenzioni, nella contingenza politica attuale, è di fatto aderente all’intento testamentario di Alfred Nobel: premiare idee espresse in forma di parole che comprendano in sé con una forza universalmente liberatoria quello che deve restare, tramandarsi e salvarsi di un mondo e di un tempo. Cos’altro è la letteratura?