L’immaginazione al potere
A dieci anni dalla scomparsa del grande psicologo esce il suo libro postumo: un dialogo sull’arte della fine, le immagini e la loro forza di guarigione
S.R. – Che cos’è un’immagine?
J.H. – Eccoci alla domanda fondamentale. Se capissimo cos’è un’immagine, ci libereremmo da ciò che oggi pensiamo siano le immagini. Che non sono immagini vere, intere: sono immagini fratturate, immagini vicarie, disperse, frantumate, come se ci trovassimo davanti a un mosaico scomposto. Abbiamo centinaia di tessere, nessuna delle quali è l’immagine. Tutte testimoniano l’esistenza di un’immagine dalla quale sono cadute. Tutte recano in sé la possibilità di essere in qualche modo messe insieme, come facevano i grandi mosaicisti. Come facevano? Come riuscivano a trarre da quelle centinaia di pezzetti di pietra un’unica figura, così imponente, commovente, bella, spirituale? Il fatto è che avevano dentro di sé un’immagine. Era l’immagine interiore che creava ciò che scorgiamo come entità visibile. Vorrei ricordare en passant che Michelangelo parla di questo quando usa il termine ‘immagine del cuor’.
S.R. — Stai citando una delle poesie di Michelangelo: “Amor, la tua beltà non è mortale:/ nessun volto fra noi è che pareggi / l’immagine del cor, che ’nfiammi e reggi / con altro foco e muovi con altr’ale”.
J.H. – E’ un’immagine che è del cuore o che è nel cuore. Come se l’artista, nel fare un ritratto, nello scolpirlo, attingesse l’immagine dal cuore dell’individuo che stava rappresentando. Cosicché, diciamo, la faccia visibile, la sembianza che ne risultava, era in realtà il carattere o l’essenza dell’anima. Credo quindi che la vera immagine sia quella della forma interiore, della forma psichica, della forma dell’anima. Una forma che tenendo insieme le varie visibilità dà profondità al visibile, lo fa diventare visibilità dell’anima. Ed è qualcosa che abbiamo perso. Abbiamo confuso l’immagine con il visibile.
S.R. — Con la parvenza: l’eidolon…
J.H. – … se vogliamo dirlo con Platone. Pensiamo alle immagini nella loro sola manifestazione materiale, come se coincidessero con la parvenza visibile, mentre la mente antica riusciva a vedere la figura dietro le tessere del visibile. L’immaginazione degli antichi era connessa al cosmo. Riuscivano a leggerlo. A scorgere nel cielo figure invisibili all’occhio. Per Plotino l’artefice di un’immagine, nel crearla non deve “gettare lo sguardo su alcun modello sensibile, ma immaginare”.
S.R. — Nel caso di una divinità, “immaginarla come sarebbe se acconsentisse ad apparire ai nostri occhi”, e cioè secondo una verità interiore che è un riflesso dell’intelligibile, il quale è peraltro, in termini platonici, l’unica realtà.
J.H. – Quindi occorre fare attenzione alle parole. Usare la parola immagine solo per quella che ho chiamato in latino figura, e contrapporla alla facies, alla faccia. Michelangelo non si limitava a riprodurre la faccia di qualcuno. Ne evocava l’immagine, ossia, per così dire, rappresentava l’essenza della persona.
S.R. – E così facendo si riaccostava alla dottrina platonica e neoplatonica, da cui l’arte occidentale, nel suo accentuare e perfezionare il realismo naturalistico, si era già molto prima di Michelangelo allontanata, e che era stata invece portata alle estreme conseguenze a Bisanzio Se guardiamo le icone bizantine vediamo un’immagine dall’apparenza molto elementare, che spesso da noi oggi viene percepita come un’arte meno avanzata, meno perfetta, per la semplicità del disegno, ma la cui imperfezione è voluta, perché …
J.H. – … perché ciò che importa veramente è ciò che sta dietro e che non è visibile. Non visibile attraverso gli occhi.
S.R. – Il che richiede una grande disciplina. Ma è questo il retto sguardo con cui guardarla. Lo sguardo teorizzato dai teologi e dai filosofi bizantini, secondo cui l’immagine dev’essere una via per riattivare il contatto con la nostra anima, per attivare una diversa energia psichica.
J.H. – Risvegliare un altro occhio per vederla. O per esserne visti. L’icona è stasi. E’ statica. Arresta. Ha il compito di concentrare, focalizzare. Ora, ecco un’idea. San Tommaso d’Aquino dice che la bellezza interrompe il movimento. Joyce ha ripreso questa concezione tomista. Per lui ogni immagine che promuova il movimento, l’azione, è pornografica. Potremmo anche definirla propagandistica, nel momento in cui ci spinge a fare questa o quella cosa. Mentre l’immagine vera è statica, arresta il movimento. E’ sospensione. La vera immagine ci guarda. Che cosa fa alle nostre emozioni il suo guardarci? Perché ci fermiamo davanti alla staticità dell’immagine? E’ un effetto Medusa? Qual è l’effetto della stasi dell’icona sulla psiche, sull’emozione? Perché c’è un’intenzionalità nel suo sguardo che ci inchioda, in quegli occhi, quegli occhi, in quell’oscurità sotto gli occhi che in qualche modo si impadronisce di noi. Questo è ciò che mi ha insegnato Bisanzio. Mi ha insegnato che c’è un’immagine più profonda dell’immagine visibile. Che sotto, anzi no, non sotto, dentro, all’interno di ciò che è in mostra, della presentazione dell’immagine, c’è l’immagine invisibile. Ed è l’immagine invisibile che ci guarda mentre guardiamo l’immagine visibile. Ma perché l’immagine invisibile ci guarda? Guardo l’immagine visibile perché voglio essere colpito, o già lo sono, dalla sua bellezza. Guardo l’immagine visibile per apprendere qualcosa delle dinamiche e dei gesti necessari a comporre un’immagine. Imparo arte dall’immagine visibile. Ora, è possibile? Ti sembra corretto?
S.R. — Sì, direi di sì.
J.H. – Dici di sì? Ma perché allora l’immagine invisibile vuole guardare me? Chi sono io per essere guardato? Vuole guardarmi, ed è questa l’imperscrutabile bizzarria del funzionamento dell’immagine, la sua frastornante indecifrabilità. L’immagine deve, in qualche modo, imparare da me. Forse vuole vedere il mondo come io lo vedo? Ma il mio modo di vedere il mondo è stupido, quindi perché vuole impararlo da me? Che cosa mai può imparare? Credo che impari — ah (sospira), credo che impari le vie della tristezza, le vie di chi è caduto, le vie dell’irredento, ed è perciò che fa emergere dal retroscena quel che vi si cela, qualunque cosa sia. Credo che porti compassione all’anima del mondo. La infonde, induce l’anima del mondo ad avere compassione del mondo. Se il mondo non fosse sentito come incompleto, o come irredimibile, non mostrerebbe la sua eterna tristezza, il pianto di Sophia. Non la esalerebbe; resterebbe del tutto freddo. Quella tristezza è necessariamente intrecciata al mondo, è il suo primum, il suo attributo primo.
S.R. — Questo è gnostico, James.
J.H. – E’ molto importante che il mondo possa sempre essere sentito nella sua intrinseca patologia. Non mi piace l’idea che tutto sia redimibile. Credo che in quell’idea stia l’inferno. In altre parole, non mi piace l’idea di una salvezza universale o comunque di una possibilità di salvarsi in un modo o nell’altro.
S.R. — Sempre più gnostico, anzi manicheo.
J.H. – C’è una tenebra. Sì, e devo dire che mi conforta sentirla. Quando mi interrogo, devo rispondermi che c’è.
S.R. — Quindi è una tenebra che senti dentro di te come fuori di te?
J.H. – E’ data con l’universo.
S.R. — In che senso?
J.H. – Con il cosmo, non con l’universo, con il cosmo. La tenebra è intrecciata al cosmo. Non lasciarlo fuori, scrivilo.
S.R. — Lo sto facendo.
J.H. – Non bisogna pensare che tutto possa essere salvato, che è l’idea cristiana, e io non sono un cristiano. Noi non sappiamo che cosa possa essere salvato e cosa no e su cosa sia follia applicarsi. Ma io mi ci applico. E mi piace farlo. Mi piace ancora.
[…]
Non è questa, alla fine, la grande domanda, che Henry Corbin non si è stancato di porre, che cosa è successo all’immagine nel nostro tempo? Che cosa è successo da quando le immagini erano il segnavia della conoscenza e della verità? Da quando erano portatrici di santità, recavano in sé una tale importanza da costituire il dispiegamento della bellezza in quanto tale, e da non poter essere pertanto in alcun modo eluse o svilite? Erano rivelazione. Ma quale immagine nel mondo di oggi si può definire così? Quella che andiamo a vedere al cinema? Quella che guardiamo in tv il sabato sera? C’è un’immensa discrepanza tra queste immagini e quelle che possono dirsi, in un certo senso, sacre, rivelazioni, come le ho definite un momento fa. Ma vorrei riprendere il concetto di verità e bellezza. Ho usato poco fa entrambe queste parole.
S.R. — Sì. Le immagini come segnavia per la conoscenza della verità e il dispiegamento della bellezza.
J.H. – E allora come posso io, mentre sto morendo, parlare di immagini, o dell’immagine, o di un’immagine come rivelazione della verità? Che cosa sanno le immagini? Che cosa non sanno? Perché vengono a noi? Come possono le immagini che mi circondano guidarmi alla verità o alla bellezza o a qualsiasi cosa, quando sono inondato da un caos di immagini? Ma sono effettivamente immagini? Che cosa sono?
S.R. — Forse sono quelle che abbiamo chiamato a Ravenna immagini facili, false, ingannevoli?
J.H. – Preferisco usare la parola “cadute”. Ma “cadute” implica perfettibilità. […] Le immagini vere sono quelle che non sollecitano l’azione. Sono false quelle che la sollecitano. Il che varrebbe a dire che tutte le immagini che non siano ipnotizzate dalla morte o che in qualche modo non la incorporino — non so quale parola usare qui — sono immagini false. Questa sarebbe l’idea. Ma come formulare quest’idea in modo che dia senso?
S.R. — Forse usando la persuasione dell’icona, il suo mostrarci che l’immagine più profonda è celata e deve essere immaginata? Il potere sulla psiche della sua stasi, della morte-in-vita che le leggiamo negli occhi? Hai sostenuto molte volte che per essere vivi ci serve la morte. Una tua celebre frase afferma che una vita o una società che non tenga vicina la morte è moribunda, morente.
J.H. – Morente! Ah, proprio come me! [Ride]. In realtà c’è una commistione delle due, non c’è una linea di demarcazione. Tant’è vero che in questo enigma approdiamo a un luogo in cui non sappiamo dove siamo.
S.R. — L’enigma dell’icona?
J.H. – Anche quest’altro enigma, che mentre sono qui steso nel letto e parlo con te, cerco di decifrare per capire, per scoprire dove tracciare la linea di demarcazione tra vita e morte se mi venisse chiesto di tracciarla. E’ nel parlare? È nel respirare? O in che cos’è? Nel sognare? Questa è la domanda.