Dorata Ravenna, Bisanzio immaginaria
"Ravenna. Gli splendori di un impero" a cura di P. Cesaretti
Articolo disponibile in PDF
I Mosaici di San Vitale a Ravenna — una “fuga bachiana” come li definì il grande bizantinista Ernst Kitzinger — sono stati dall’Ottocento in poi l’emblema dell’ “originaria purezza bizantina” conservata secondo gli europei in quella città morta, antica capitale dell’esarcato di Giustiniano, tardivamente percepita come una sorta di antitesi occidentale a una Costantinopoli troppo aliena — geograficamente e ideologicamente — dalla tradizione papista del nostro medioevo.
Secondo Eliot, la basilica di San Vitale “mantiene la forma precisa di Bisanzio”: o del bizantinismo? della dannuziana “glauca notte rutilante d’oro”? della “dolce ansietà d’Oriente” di Montale? dell’“azzurro intenso fino alla disperazione” còlto da Giuseppe Ungaretti nel mausoleo di Galla Placidia, che poco dopo – siamo negli anni 50 – avrebbe ossessionato Yves Klein?
L’ambiguità, la capacità plagiatrice di Ravenna è riassunta in un racconto di Borges citato all’inizio dell’appassionante saggio di Paolo Cesaretti che correda il volume uscito da FMR (Ravenna. Gli splendori di un impero, a c. di P. Cesaretti, 238 pp., 135 euro). Borges si ispira alla semileggendaria vicenda del goto Droctulf, a sua volta ricostruita da Benedetto Croce in base a Paolo Diacono, lo storico dei longobardi, il quale l’aveva desunta da una iscrizione funeraria ora perduta ma allora posta proprio davanti a San Vitale, che suonava così: “Sprezzò, per amare noi, i suoi cari genitori, eleggendo sua patria la nostra Ravenna”. Il goto non capiva nulla di ciò che vide quando lo portò lì la guerra: “Il giorno, i cipressi e il marmo… Un’incomprensibile iscrizione in eterne lettere romane”. Di quell’“insieme molteplice senza disordine”, di quel meccanismo complesso fatto di statue, templi, giardini, case, gradini, vasi, capitelli, il barbaro ignorava la genesi, il funzionamento, il fine. Ma nel suo disegno scorgeva “l’intelligenza immortale” della città.
Tutti coloro che hanno decantato Ravenna, a partire da August van Platen e da Byron, e per tutto il Grand Tour, sino almeno alla metà del Novecento, sono dei Droctulf, plagiati, dall’“intelligenza immortale” di quella Fata Morgana di pietra e smalto, dal trompe l’oeil di una “bizantinità pura” storicamente a Ravenna mai esistita. I lenta paludosae stagna Ravennae dei versi di Silio Italico si erano ibridati e contaminati nei secoli in continue osmosi etniche, spiega Cesaretti. Di qui, forse, proviene l’accattivante eclettismo che solo può definire la sua arte.
A Ravenna alludono “i saggi roteanti in spirale nel sacro fuoco” evocati dalla più celebre delle poesie novecentesche ispirate a Bisanzio, Sailing to Byzantium di Yeats, e in particolare al Battistero degli Ortodossi, o “neoniano”, ibridato con le processioni di Sant’Apollinare Nuovo, l’antica chiesa palatina del Redentore. Una reinvenzione di Bisanzio parallela a quella di Marguerite Yourcenar, che negli apostoli in processione vedeva dervisci ruotanti: “Qui i pilastri ruotano con la terra. Le volte ruotano con il cielo. Girano in tondo, gli Apostoli, come dervisci agli acuti suoni di un valzer lento”.
“Che importa se i riferimenti ignorano la storia?”, si domanda Cesaretti. Se il Battistero nasce dall’intento correttivo e “purgativo” del vescovo Neonio, se le processioni di Sant’Apollinare sostituiscono santi e vergini, per un altrettanto preciso intento politico, alle processioni onorifiche dei funzionari di palazzo rappresentate originariamente? Eppure, riflette Cesaretti, “sono state proprio quelle processioni ieratiche — nei fatti, consapevoli correzioni di preesistenze ‘eretiche’ — ad avere impressionato i moderni, ora nel segno del ‘rapimento estatico’, dell’immaginazione contemplativa, del ‘sonnambulismo’, ora come espressioni di una dignità ritenuta ‘originaria’ da Hyppolite Flandrin a Edward Burne-Jones”.
E’ in un altro Battistero, quello degli Ariani, cioè in un edificio ancora più dichiaratamente “eretico”, che compare del resto per la prima volta il fondo oro, divenuto emblema non solo di Ravenna ma di tutto il bizantinismo figurativo, sino alle architetture néo-byzantines del tardo Ottocento francese e agli scenari della Théodora di Sardou, quando Sarah Bernhardt compì, si dice, un viaggio segreto a Ravenna per specchiarsi in quei mosaici dove il suo personaggio troneggia in “una delle più straordinarie epifanie del potere femminile mai visualizzate”.
Esiste il vero nella letteratura?, si domanda l’autore, e se la domanda serpeggia in ogni citazione la risposta implicita è no. Il vero storico, almeno. Esiste però un vero letterario, una Ravenna-golem fatta delle tante, babeliche percezioni di noi barbari Droctulf che abbiamo vissuto il medioevo nella parte buia del Mediterraneo; un vero più vicino alla finzione borgesiana che alla “presunta, acronica ‘forma precisa di Bisanzio’”giustamente archiviata, quanto a Ravenna, da Cesaretti.
La costruzione letteraria che è per noi oggi Ravenna, dunque, è un vero e proprio falso d’autore. Solo Pound nei Cantos ne intuì l’impurità, i rifacimenti, le spoliazioni quattrocentesche di cui conosceva bene la storia, lui più stregato dal Tempio Malatestiano della vicina Rimini. E anche Freud: “Teodorico, Dante, mandorle e fichi”, annotò nel 1896, avvertendo l’angustia storica di quel “buco miserando, con cadenti capanne di mattoni che contengono i resti dell’arte cristiana e degli ostrogoti”. Alloggiava all’Hotel Byron, l’altro grande sublimatore del vero in letteratura.
Ma San Vitale ispirerà la Cappella Palatina di Carlo Magno ad Aquisgrana, così come le scene per la prima apparizione del Santo Graal nel Parsifal di Wagner. Ed è nel segno del viaggio a Ravenna di Klimt che il bizantinismo penetrerà la pittura del Novecento: le sue figure femminili, dal Ritratto di Adele Bloch-Bauer al Bacio, fino al ciclo di Palazzo Stoclet a Bruxelles, si staglieranno su quel fondo oro che in realtà è tutto tranne che originariamente bizantino.
“Rovello per gli studiosi in cerca di fonti che partono dalle tradizioni locali per giungere a Roma, a Costantinopoli, all’Iran, alla stessa Cina”, il Mausoleo di Galla Placidia verrà deliberatamente ripreso nella cattedrale di Marsiglia, poi nella Christ Church di Park Avenue a New York, segnala Cesaretti, “negli stessi Thirties in cui Cole Porter componeva la melodia di Night and Day”.