Classici ad alta densità
Forte, sana, fresca, gioiosa: il segreto della grande scrittura
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Una volta, mentre Baudelaire stava sbarcando su un'isola dell'oceano Indiano, contro la passerella della nave si abbatté un'onda enorme, che lo sommerse completamente. Quando l'acqua si ritirò, i barracuda si contendevano il suo cilindro, ma non il libro che teneva in mano. Baudelaire, zuppo da capo a piedi, continuava a stringerlo a sé. Tenete a mente quest'immagine, è un piccolo ex-voto, sintetizza la funzione della lettura: un libro ci salva dai marosi della vita, che siano fuori o dentro di noi.
Durante la ritirata di Russia, mentre tutti nelle file napoleoniche cercavano di alleggerire più che potevano il loro carico e abbandonavano per strada gli ori e i cristalli e gli smalti e tutti gli oggetti preziosi rubati durante il saccheggio di Mosca, Stendhal teneva stretta la sua unica preda: un grosso volume di Voltaire rilegato in marocchino rosso. Un secolo dopo, nelle trincee di un'altra e più terribile guerra, un altro giovane ufficiale, Ernst Jùnger, mentre i suoi colleghi si stordivano con le droghe, restava assorto nella lettura di Rabelais, Molière e Balzac, oltreché di Stendhal e Baudelaire. Perché la lettura è il più forte degli stupefacenti. Come aveva intuito Calvino nell’Avventura di un lettore, la lettura può essere un filtro talmente potente da neutralizzare, così come i lampi e le esplosioni delle granate, i fuochi fatui e i brividi dell'amore. Però, perché un libro faccia quest'effetto, non dev'es sere un libro qualsiasi. Deve essere un classico. Un classico, come diceva Stendhal, è uno specchio che ci portiamo dietro. Ogni grande libro cambia insieme a noi, ci offre a ogni età della vita qualcosa di diverso. Non dobbiamo temere di annoiarci a rileggere un classico più e più volte nella vita. Ogni volta sarà un libro diverso. Per quante volte lo rileggiamo, non potremo mai dire: "L’abbiamo già letto". In un'intervista Jean Giono, uno degli ultimi scrittori entrati nell'empireo dei classici, ha spiegato la differenza tra un classico e un libro qualsiasi in termini di densità. Ha definito i classici "libri ad alta densità di lettura". Giono da studente era povero, non poteva permettersi i libri alla moda, dalla copertina sfavillante. Però, racconta, poteva permettersi Omero, perché Omero era economico, perché Omero aveva un'alta densità. Dunque i classici sono HD, High Density, come certi dischetti di computer. E la sua alta densità è dovuta a quella sua essenza che Massimo Cacciari ha definito non cronologica ma topologica: i classici "non sono epoche ma luoghi del pensiero".
Leggere un solo capitolo di Anna Karenina avrà un effetto più forte di migliaia di pagine di best seller dalla copertina patinata. Ma proprio per questo - prima precauzione di lettura - non dobbiamo abusarne.
Uno solo dei Canti di Leopardi o dei Racconti di Pietroburgo di Gogol basta a riempire una giornata: assaporiamoli lentamente, sperimentiamo i loro effetti stupefacenti e godiamone, ma soprattutto non leggiamo, quel giorno, nient'altro.
Ne Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta, a sua volta un piccolo classico degli anni 70, Robert Pirsig ha incluso nel bagaglio ridotto del motociclista una copia del Walden di Thoreau. Ma con un'avvertenza: leggerne poche frasi alla volta, perché "i classici si leggono bene così. Si vede che è così che sono stati scritti. Certe volte ci accorgiamo di aver letto soltanto due o tre pagine in una sera. E' un modo di leggere piacevolissimo che appartiene a un secolo fa...". Intendiamoci, contrariamente alla maggior parte delle droghe, un classico non solo ci rende felici ma ci fa anche bene. Oltre che HD, un classico è HF, Health Food. Goethe aveva confidato a Eckerman qualcosa di simile il 2 aprile 1829: “lo chiamo classico quello che è sano", diceva. "La produzione antica non è classica perché è antica, ma perché è forte, sana, fresca e gioiosa". Ma appunto - secondo consiglio di lettura - dobbiamo calcolare e dosare il suo valore nutritivo proprio come facciamo con i cibi.
Il fatto è che anche i prodotti dello spirito, come i vini e i formaggi, hanno bisogno di un loro tempo di maturazione. "Per i prodotti dello spirito", ha annotato Ernst Jùnger nel suo diario parigino il 4 marzo 1945, "occorre che trascorra un certo periodo di tempo prima che sia caduto tutto ciò che in esse c'era di transitorio". I classici sono nutrimenti stagionati. Vanno assaporati secondo le regole dello Slow Food. Non divoriamo Le relazioni pericolose tutte in una notte. Non passiamo in compagnia del Ritratto di Dorian Cray più di due ore consecutive. Il tempo giusto per assimilare un intero classico è, indipendentemente dalla sua lunghezza, non meno di una settimana. "I classici", ha detto Umberto Eco, "sono testi sopravvissuti in senso darwiniano a una selezione. Medea è giunta fino a noi perché era più bella di altre tragedie perdute? O perché Euripide era più ammanicato nel mondo dei teatri? O per puro caso? In fondo i classici che conosciamo sono quelli che hanno goduto del consensus gentium, tanto da imporsi in qualche modo anche a chi non ne provava ammirazione. Dante sopravvisse al Settecento che lo detestava". C'è chi individua l'essenza di un classico nella compresenza di condizioni apparentemente antitetiche. In altre parole, un libro classico, anche se non è una tragedia, produce sempre quella che Aristotele chiamava una catarsi, una purificazione, un alleviamento dei nostri conflitti interiori. Infatti già Platone, nella Repubblica, aveva definito il primo classico, Omero, come "il primo dei tragediografi". Un classico, per usare un'espressione di Truman Capote, è una preghiera esaudita.
Quando ci immergeremo in Madame Bovary non solo il tempo sembrerà fermarsi ma da quel momento in poi guarderemo le miserie della vita con un senso di indulgenza e serenità che nessun catechismo ci ha mai insegnato. Leggere la Certosa di Parma o il Giro di Vite o L'isola del tesoro o Delitto e castigo riequilibrerà il nostro respiro interiore più di un corso di yoga. Ed è perciò che questi e gli altri libri che chiamiamo classici hanno resistito nei secoli, sono stati trasmessi di generazione in generazione, hanno superato le invidie dei contemporanei, le censure della politica, la dittatura delle mode, la transitorietà di ogni cosa umana. Perché sono rimedi sperimentati, ricostituenti concentrati e universali, preghiere laiche e interconfessionali. E perché sono l'unica dipendenza non nociva fra tutte quelle escogitate nei millenni per alleviare i nostri dolori.
Tuttavia, proprio per questo loro appartenere al passato, i classici richiedono un'ulteriore precauzione di lettura, che riguarda la lingua in cui sono scritti. Come diceva Benjamin, gli antichi non erano antichi quando scrivevano, poiché usavano la lingua del presente. Un classico è tale e resiste lungo i secoli perché la sua lingua rimane sempre lingua del presente. Perché un miracolo ha fatto sì che il suo autore superasse i vezzi e i limiti della sua epoca, la contingenza, la storicità del linguaggio, rendendolo universale e tale da eludere il tempo. Ma è un miracolo che avvertiamo solo se leggiamo il classico in lingua originale. Per quelli che leggiamo in traduzione dobbiamo preventivare un incessante restauro, un continuo adeguamento alla lingua del presente. E' bene leggere i classici nella più recente delle traduzioni. Se non ce n'è una recente, nella migliore delle passate. Un classico non serve il presente, ma costituisce un ponte tra passato e futuro. "Classico", ha detto Cacciari, "non è qualcosa che rimanda al passato, è qualcosa che resiste al presente. I veri classici non fuggono, sfidano e sono sempre pericolosi". Un classico è sempre eversivo, sempre trasgressivo, sempre anticonformista. Chi non ricorda l'accanimento, nella vulgata culturale degli anni 70, contro i classici dell'antichità? Era il periodo della cosiddetta egemonia culturale della sinistra, la cui austera tradizione, che pure aveva prodotto grandi antichisti come Concetto Marchesi e Santo Mazzarino, era stata ibridata dallo spontaneismo del '68. Nei licei girare con Pindaro sotto il braccio era un gesto reazionario; con Cicerone, una provocazione fascista. Le sole letture possibili, nel futile magazzino del passato, erano quelle garantite dai pronunciamenti, inconfutabili quanto spesso fortuiti, dei precursori del futuro: Balzac, salvato da Marx per la sua crudele analisi del mondo ottocentesco; Mann, salvato da Lukàcs per la sua intuizione "che la società borghese non può essere la forma definitiva della società umana". Quanto al resto, una formazione virtuosa e timorata contemplava un patchwork di contemporanei bizzarro e diseguale: Pavese e Neruda, Gramsci e Marquez, Brecht e Fo. Pochissimi continuavano a credere che lo studio degli antichi giovasse all'intelligenza dei moderni. Ancora meno numerosi erano quelli che avevano la cultura e il coraggio di spiegare il perché.
Oggi l'idiosincrasia verso il passato induce sempre più spesso, con risultati deplorevoli, a non tenere conto dei precedenti di quanto accade, che siano vecchi di millenni o solo di qualche anno. Un'ideologia che si potrebbe pensare derivata dal progressismo bolscevico, se nell’Internazionale il poeta comunardo Pottier proclamava: "Del passato facciamo tabula rasa". Ma in realtà era già nata nella Rivoluzione Francese, quando lo studio del greco e del latino fu ridotto a un livello elementare e fu bloccata la possibilità di stampare i testi di storici come Tucidide perfino in traduzione. "Ci siamo tanto allontanati dagli antichi, li abbiamo talmente distaccati sulla via della verità, che bisogna avere la propria ragione completamente corazzata perché quelle preziose spoglie possano arricchirla senza corromperla!", predicava Condorcet nel Rapporto generale sull'Istruzione pubblica presentato all'Assemblea Legislativa nella primavera del 1792, un anno prima del Terrore.
Leggere i classici, come diceva Leopardi, è un modo di "gettare i morti in faccia ai vivi". Ma è anche, come ha detto Cacciari, "contraddire la tirannia del momento".