Artemidoro, non tutto il falso vien per nuocere
Da quando è scoppiata la disputa, tra gli studiosi si è imposta una nouvelle vague: sui documenti sospetti è finita l’era dell’omertà e del galateo accademico
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E’ cambiato qualcosa dal 2006, da quando si è aperta la querelle sul cosiddetto papiro di Artemidoro, del cui testo esce ora, curata da Luciano Canfora, l’attesa edizione critica (Pseudo-Artemidoro, Epitome: Spagna. Il geografo come filosofo, Antenore, 87pp., 12 euro). Forse “a suo tempo addirittura rubato” (p. 8), il falso Artemidoro si è in ogni caso rivelato frutto dell’assemblaggio di tre papiri confezionati nell’Ottocento da Constantinos Simonidis e conservati fino agli anni 70 del Novecento nel fondo omonimo del Museo di Liverpool — i “tre grossi sigari” descritti da James Farrer (1907), poi risultati scomparsi — e delle aggiunte di un secondo falsario novecentesco. Ristabilendo l’ordine dei brani così come si presenta nel collage, l’opera di Canfora sigilla sei anni di discussioni e studi che hanno dato vita alla controversia scientifica giudicata più importante e metodologicamente più significativa, nel campo dell’antichistica, da un lunghissimo tempo a questa parte.
I fatti hanno dimostrato che anche le più sottili questioni erudite possono essere spiegate a un vasto pubblico di non specialisti. All’inizio della querelle a qualcuno sembrava sconveniente, se non pericoloso, consegnare alla piazza mediatica i dissidi e le accuse che si scambiavano nei templi, peraltro ormai semivuoti, dell’alta cultura classica. Ma in sei anni, a fronte di migliaia di pagine prodotte in sede accademica, gli articoli giornalistici, gli interventi televisivi e le pagine web hanno dimostrato la possibilità di una sintetica quanto rigorosa diffusione ai molti di conoscenze, se non arcane, certo elitarie.
L’esempio della controversia sul cosiddetto Artemidoro ha così dato vita a una nouvelle vague. Sommandosi forse alla diffusa esasperazione per le “bugie” dei politici, le “lobby” dei potenti, i “segreti” dei banchieri, certo all’insofferenza per la manipolazione e la mistificazione, una nuova meticolosa attenzione all’autenticità degli oggetti e tanto più dei beni culturali ha investito la psicologia collettiva, reclamando un’articolata distinzione del vero dal falso e spazzando via ogni misericordia accademica, omertà o galateo che dir si voglia.
In passato, nel mondo degli studi, un velo di discrezione avvolgeva l’onta di un falso. Si stentava a segnare a dito il re nudo. Perfino nei più rigorosi e paludati ambienti accademici una forma di solidarietà, individuale o di casta, ovattava ogni notizia e proteggeva chi, inciampato in un falso — si trattasse di un manufatto artistico o di un reperto manoscritto — avesse fatto l’ulteriore passo falso di proclamarlo tenacemente vero.
Oggi allo studioso che inciampa in un falso non si perdona più facilmente. Il caso del Crocifisso Gallino, che ha imperato sulle pagine dei giornali, negli ultimi tempi, quasi quanto l’Artemidoro, e la cui popolarità mediatica batte ogni falso precedente, compresi i falsi Modigliani, ha messo ai ferri corti il mondo degli storici dell’arte, e non solo. Forse perché, in questo caso, la somma — non molto diversa da quella pagata dalla Compagnia di San Paolo per il cosiddetto Artemidoro — è stata sborsata dallo Stato italiano, l’attenzione dedicata dal web allo pseudo-Michelangelo ha doppiato quella riservata al falso Artemidoro, con un rating di 22mila risultati su Google (e ben 1222 su Google Scholar), mentre nella corrispettiva voce di Wikipedia i nomi degli studiosi “favorevoli” e “contrari” si fronteggiano fitti come schieramenti campali, in contrasto con la polarità da antico duello del dibattito Canfora-Settis.
In passato, difficilmente era uno studioso a smascherare un suo simile. Se mai, ne attendeva l’autocritica; che prima o poi veniva fatta; tutto restava, comunque, interno al mondo degli studi. Potevano così darsi rigurgiti di sanfedismo, come quando, nel 1990, l’oxfordiano Carsten Thiede riabilitò come vero il falso papiro di Matteo, dichiaratamente prodotto dallo stesso Simonidis (1861-62), e ciò per ragion di chiesa in senso stretto: per avvalorare cioè la datazione alta di presunti nuovi manoscritti, come il cosiddetto Markusfragment di Qumran, del Nuovo Testamento, il cui corpus non è testimoniato invece prima della fine del I secolo dopo Cristo.
Il falso papiro di Matteo è ancora nel Museo di Liverpool, accanto agli altri falsi di Simonidis collezionati dal suo protettore Joseph Mayer, e chiunque può vederlo. Contrariamente ai “tre grossi sigari” descritti da Farrer, ossia ai tre rotoli con cui è stato confezionato il cosiddetto papiro di Artemidoro. Che a sua volta però, a differenza di quello di Matteo, non può essere esposto senza timore in un museo, non potendosi appurare per quali vie i falsi papiri incompiuti siano scomparsi da Liverpool e arrivati nelle mani del moderno bricoleur che li ha trasformati in un papiro “unico” di immensa quanto falsa grandezza.