Ragliare in greco e latino
"Antropologia sonora del mondo antico" di Maurizio Bettini
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Amano gli animali perché sono stati delusi dagli esseri umani, diceva l’opinione popolare in età preanimalista. Non sappiamo se un’analoga disillusione abbia nella sua maturità allontanato un eminente antichista come Maurizio Bettini da Ennio, da Plauto e dagli altri umanissimi autori latini studiati lungo tutta una vita. Fatto sta che da un buon decennio è ad altri soggetti, ad altre “voci”, appunto, per citare il titolo del suo ultimo, stupefacente libro, che la curiosità dello studioso, non priva di una vena malinconica, principalmente si rivolge. Dopo un saggio maestro come “Nascere” (Einaudi), che inseguiva le orme terrestri della donnola, è al cielo che si rivolge ora il suo sguardo indagatore. O meglio, a quella misteriosa frontiera tra terra e cielo che è presidiata dagli uccelli, mediatori fra la prevedibile sfera dell’umano e quella dell’insondabile, o divino: come sapevano gli aruspici e gli ornitomanti, come ironicamente additava Aristofane e come cripticamente confessava Alcmane: “Ho trovato i miei versi / componendo in linguaggio il verso delle pernici”.
Non è la griglia concettuale dell’antropologo che in questo libro ci interessa di più, le pur acute dissertazioni di Bettini sulla fonosfera degli antichi e dei moderni, l’assunto solo apparentemente lapalissiano che nella prima i versi del mondo animale soverchiavano di gran lunga i pochi rumori meccanici – il cigolio dei carri, il martello del fabbro – contrariamente all’odierno inquinamento sonoro che ci infligge la tecnologia, dai rombi dei motori ai trilli dei cellulari. E non è neanche la ricostruzione del linguista, che prende in esame non più e non solo il “punto di vista” ma anche e soprattutto il “punto d’ascolto” degli antichi, il loro disarmante abbandonare spesso, definendo la sonorità animale, la nozione di “phoné”, “voce”, a vantaggio di quella di “dialektos”, “parola articolata” o “linguaggio”. E non è neppure l’intuizione del mitografo sull’esistenza, nella nostra affabulazione immemoriale, di un’ipotetica Torre di Babele degli animali, e segnatamente degli uccelli: l’idea ancestrale che da un linguaggio unico siano stati condannati a differenziare i loro particolari versi (“discrimina”) quale punizione per l’arroganza di avere chiesto l’eterna giovinezza, suggestionati dal serpente che sa cambiare pelle ogni stagione, come il camaleonte e come il diavolo.
No, non è questo complesso castello di erudizione antropologico-linguistico-mitografica ad affascinarci di più, nella scrittura di Bettini. E’, invece, la sua capacità di evocare, con la destrezza del musicista, l’immediatezza del poeta e la finezza dell’esteta, quelle voci, quei versi: il risuonare e l’echeggiare e l’inquieto e inquietante irrompere, nel delirio quotidiano della psiche arcaica, del raglio dell’asino o delle “infauste grida dei trichechi”; di vocalità assordanti e frastornanti perché presagi, segni, significanti dotati di un significato incontenibile dal logos, portatori di una semantica irrazionale che è, forse, sembra voler dire Bettini, la semantica stessa dell’irrazionale.
Come Orfeo che guida col suo canto il corteo multiforme delle bestie, l’autore ci conduce nella selva delle voci primordiali, che l’uomo antico, o il nostro antico io, neppure discerne se esteriori o interiori. Come sulle corde di un liuto – e lo snodarsi “musicale” non tanto della prosa quanto proprio dell’argomentazione e del ragionamento è confermato dal titolo dell’ultimo capitolo: “Finale”, come in un melodramma - Bettini si esercita a modulare una ricerca sicura, determinata, persino a tratti ostinata e inquisitoria: insegue gli echi millenari delle sue “voci” e ci costringe a seguirlo nella ricerca, perché, come lui stesso afferma, occorre “stanare” questa banda clandestina di testimonianze dai “ripari improbabili” che le ha offerto la letteratura.
L’escursione è piacevole perché gli autori conniventi sono i più vari, e i più capaci di collaborare all’indagine sono quelli che ci offrono anche squisiti pettegolezzi e suggestive curiosità, cataloghi di turpiloqui, indiscrezioni, fughe di notizie sulla vita privata dei nostri maggiori. Molti scritti testimoniano ad esempio quanto fosse gradita agli antichi la forma di intrattenimento consistente nell’imitare latrati, grugniti, ragli e belati, con rivalità spesso tanto sanguinose, tra gli imitatori, quanto quelle dei moderni accademici.
Accademici, sì, perché è in Svetonio per il latino, con qualche precedente in Varrone e fondamentali esiti in Plinio, e in Zenodoto per il greco che l’elenco delle voci animali è più folto, l’esercizio lessicografico più strenuo. Del resto, perfino un imperatore, Antonino Geta, faceva delle voces animalium materia di indovinelli.
Più avanti, in capitoli più severi ed eruditi, l’autore esamina i miti come causa/effetto degli animali nella psiche umana, occupandosi più di quadrupedi che di bipedi, piumati o implumi. Se nel caso degli uccelli l’affinità con l’uomo o, per dirla con l’autore, “la convergenza tra l’umano e l’aviario” era nel segno della poesia (e dalle pernici di Alcmane l’arpeggio passava abilmente all’allodola di Shelley, fino all’amletica domanda di Brodskij: “bird” o “bard”?), ora che si tratta degli altri animali le trasposizioni e le metafore riguardano una sfera più corporea o, se psichica, più terrifica.
Se gli uccelli erano gli “strumenti musicali in mano agli dei”, oppure i loro portatori privilegiati di messaggi (si veda il prezioso capitolo “Me l’ha detto l’uccellino”), qui addirittura alcune parole latine ripetono il verso dell’animale non solo nel suono ma anche nel senso e perfino nella motivazione, che è spesso la paura o la resistenza (si pensi al cruciale capitolo “Animali che parlano e sono parlati”).
La conclusione del “Finale” è che nella fonosfera testimoniata dagli antichi gli uccelli mostravano nel loro canto, non utilitario ma “estetico”, una contiguità con la parte più poetica dell’umano. E però la descrizione dei versi ambigui del maiale selvatico, del nibbio, dei lupi o delle lepri testimonia nelle fonti un messaggio meno alato e più problematico: la possibile contiguità, anzi “convergenza”, tra il linguaggio animale e quello umano. La chiave per aprire questa nuova, non varcata soglia d’indagine sono, per Bettini, gli studi sperimentali sulla glossolalia e perfino sulla xenoglossia, che tanta parte hanno nella nostra o nelle nostre religioni.