La Repubblica Firenze. Isis, arte e distruzioni. 'Rileggiamo il passato'
25/05/2017
Palmira, Ninive, Aleppo. Per Silvia Ronchey, bizantinista e filologa di fama internazionale, oggi docente a Roma Tre, le devastazioni dell'Isis hanno poco a che vedere con un'iconoclastia di matrice islamica, quanto piuttosto con una volontà politica di cancellazione del passato comune a molte rivoluzioni violente. A cominciare da quelle, ben più lontane nel tempo, legate alla storia cristiana. Un invito a rileggere il passato per capire meglio il presente che la studiosa lancerà sabato a Pistoia, durante uno degli incontri più attesi dei "Dialoghi sull'uomo" (teatro Bolognini, ore 17,30; 3 euro).
Per capire la furia devastatrice dell'Isis, insomma, occorre fare un passo indietro nella storia.
«Almeno all'inizio del nuovo millennio, con la distruzione dei Buddha di Bamiyan a opera dei Talebani. Una violenza che non era diretta verso l'Occidente, ma verso il simbolo di una tradizione orientale oggetto di devozione in ogni angolo del mondo. Un atto che aveva, a mio parere, una dimensione molto meno religiosa di quanto sia stato fatto credere. Si è parlato tanto di iconoclastia islamica, anche perché il documento programmatico dei Talebani faceva riferimento a un attacco ai falsi idoli in nome di Allah, ma io non credo che sia la chiave di lettura corretta. Per capirlo, però, è necessario fare un ulteriore passo indietro».
Ovvero?
«Alla demolizione di statue e templi ad opera della giovane Chiesa cristiana fra il IV e il V secolo, a quando cioè, grazie agli editti di Costantino prima e di Teodosio poi, assistiamo all'affermazione del Cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero romano. Penso per esempio alla distruzione del Serapeo di Alessandria e della famosa statua di Se- rapide dell'architetto ateniese Briasside. Facendo un salto in avanti, arriviamo poi alla Quarta crociata del 1204, e alla distruzione delle statue di Costantinopoli descritta da Niceta Coniata. Devastazioni che ebbero poco a che vedere con un cieco fanatismo, e che non riguardavano tanto una contrapposizione fra religioni, quanto un avvicendamento forzato del potere politico».
Torniamo al presente.
«Quello che sostengo è che le devastazioni di Paimira e Ninive non siano attribuibili tanto all'applicazione di un fantomatico dogmatismo religioso, quanto a una volontà rivoluzionaria di cancellare ogni passato preesistente allo Stato islamico. Compreso quello musulmano. L'Isis ha distrutto monumenti e siti cristiani, ma anche i mausolei dei santi marabutti, simbolo della componente spiritualmente più ricca dell'I- slam. Se guardiamo poi alla città di Aleppo, si è voluta cancellare quella stratificazione, risalente al mondo greco-romano, che la rendeva unica al mondo. Poi certo, ci sono anche ragioni economiche, per esempio la rivendita dei reperti archeologici sul mercato nero o la speculazione edilizia sulle macerie per finanziare le attività dell'Isis. Ma io credo che la volontà più evidente sia quella di uno sradicamento delle popolazioni dai loro territori e dalle loro tradizioni, la cancellazione di una memoria e di una coscienza storica capace di tenere insieme i popoli. Con la scusa della religione, insomma, si eliminano radici e appartenenza a favore di un Islam politico, sovrastrutturale».
Il risultato, però, è quello dell'islamofobia.
«Che ritengo ingiustificata perché, se c'è una religionestoricamente rispettosa delle tradizioni altrui, è proprio l'Islam. Quella proposta dall’Isis è una distorsione, una sovrastruttura di carattere ideologico che punta a cancellare il passato per affermare un nuovo presente. E proprio questo è il rischio più grave che oggi corriamo: Tucidide sosteneva che i mali del mondo dovessero essere affrontati come un'indagi-ne medica, attraverso l'anamnesi, ovvero la comprensione del passato, la diagnosi, e cioè l'elaborazione del presente, e la prognosi, la previsione del futuro. Senza comprensione del passato, non ci resta che assistere a un crescendo di odio e violenza. E a pagarne le spese non sarà tanto l'Occidente, quanto quelle popolazioni locali che dovranno costruire un mondo nuovo, in grado di dialogare col nostro».