Il mondo delle donne di Robert Graves: critica al presente mascherata da utopia
In "Sette giorni fra mille anni" il poeta e classicista inglese castiga i costumi contemporanei raffigurando una civiltà crudele dominata dalle femmine
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Si potrebbe credere che la letteratura inglese del Novecento abbia prodotto tre libri di fantapolitica classificabili anche come utopie, in omaggio a Tommaso Moro, o come distopie, per usare un termine di John Stuart Mill. Il mondo nuovo di Huxley (1932), 1984 di Orwell (1949) e Sette giorni fra mille anni di Graves (1949) collocano in un mondo futuro una società fittizia solo apparentemente idilliaca, che in realtà man mano che viene descritta si rivela tutt’altro che ideale, un po’ come, almeno allo sguardo anglosassone, la Repubblica di Platone; così che la descrizione dello Stato futuro diventa il mezzo per mostrare, portandoli alle estreme conseguenze e ammantandoli di grottesco, i pericoli delle ideologie e delle utopie del presente.
Graves, antichista e grecista, detestava la Repubblica per molti motivi e fra gli altri per il fatto che escludeva i poeti. Fin dal suo inizio Sette giorni fra mille anni è anche una parodia dello Stato ideale platonico. Nuova Creta è un rovesciamento del quinto libro della Repubblica non dissimile da quello che ne fece Aristofane nelle Donne in assemblea. Alla misoginia di Platone Sette giorni fra mille anni contrappone una superiorità femminile indiscussa ed esaltata dagli stessi maschi: a Nuova Creta le donne sono “superiori almeno agli occhi degli uomini”. Al cosiddetto comunismo sessuale dello Stato platonico, per cui le donne sono proprietà comune del maschio, Nuova Creta contrappone una libertà sessuale femminile dove in comune sono gli uomini. Fra le altre citazioni dell’utopia platonica che Graves si diverte a disseminare ci sono la condanna del profitto e soprattutto la suddivisione in classi e l’attribuzione degli individui a ciascuna in base a un’osservazione del temperamento e della capacità parallela alla severa teorizzazione platonica del talento e dell’attitudine. A Nuova Creta chi sconfina dalla propria classe muore: l’egualitarismo è crudele e l’organizzazione castale della società neocretese, se si tiene presente il modello dello Stato platonico, è assolutamente dissacrante.
Uno scrittore che si propone di dissacrare le speranze del proprio tempo immaginandole compiute in un tempo futuro non può non costellare la predizione centrale di vaticíni minori, intuizioni di contorno, dettagli profetici, che poi alla lettura finiscono per spiccare piú vivi ed essere ricordati come piú veri: tra gli eventi futuri che Graves profetizza già alla fine degli anni quaranta c’è il fallimento dell’energia atomica — un’illusione pericolosa, di breve vita e rapido declino — così come della deterrenza nucleare, e di conseguenza anche la scomparsa della guerra in sé, che a Nuova Creta viene ritualizzata, ingaggiata per divertimento e senza spargimento di sangue
L’attualità di queste profezie marginali è clamorosa e immediata. Sono piú mediate, ma non meno esatte, le tre predizioni centrali di Graves sul millennio futuro: la fine del cristianesimo, il sostituirsi al predominio del maschio di un nuovo dominio femminile e il ritorno di un nuovo paganesimo legato al culto magico della natura.
L’era cristiana finirà quando si capirà che l’umanità per non perire deve sostituire il principio maschile che l’aveva ispirata con il principio femminile che animava il paganesimo antico. Se Graves, da antichista e da storico delle religioni, è sempre stato competente e lucido sul cristianesimo, si potrebbe dire che già nella prima metà del Novecento abbia previsto il postfemminismo e la New Age: il compiersi dell’emancipazione femminile e il sorpasso di genere con cui si è aperto il Nuovo Millennio; il convergere, dopo la fine delle religioni secolari otto e novecentesche, di irrazionalismo, ambientalismo, misticismo orientale, esoterismo e antiprogressismo nelle forme di una controcultura spirituale di massa che di fatto compongono oggi una nuova religione popolare della natura basata non su un aldilà né su un’idea lineare e maschile di progresso, ma su immanenza e ciclicità.
Tuttavia, capitolo dopo capitolo, il mondo di Nuova Creta diventa per Graves sempre meno accettabile, indipendentemente, si direbbe, dal suo stesso programma narrativo. A Nuova Creta non solo le donne dominano e amministrano la società, non solo incoronano i re, ma il diritto stesso, il Custom, è basato sulla religione e le sue norme sono di volta in volta improvvisate dai poeti in base a pronunciamenti della Dea Madre suggeriti dalle proprie trances. L’estrema conseguenza dell’egemonia femminile e del ripristino del matriarcato è una società crudele e arbitraria quanto la natura della musa poetica; l’estrema conseguenza della fine del cristianesimo e della reintroduzione della religione della natura è un’angosciosa teocrazia dove non esistono codici di leggi, ma le regole imposte alla vita sono tanto arbitrarie, dispotiche, sadiche, quanto poeticamente indiscutibili.
Davvero il messaggio di Sette giorni tra mille anni è che “la donna deve riprendere il potere dall’uomo”, come è stato inteso dai non molti esegeti di questo romanzo? E se invece il potere femminile fosse il bersaglio di Graves? Se la profezia grottesca di un ritorno al matriarcato fosse in realtà l’oggetto del suo sarcasmo? Se cosí fosse, Sette giorni fra mille anni sarebbe davvero complementare agli altri due romanzi inglesi della triade fantapolitica novecentesca, Il mondo nuovo e 1984. Se l’utopia scientifica è il bersaglio di Huxley e quella comunista è l’obiettivo di Orwell, il tema di Graves sarebbero i rischi, i paradossi, le contraddizioni della terza grande rivoluzione del Novecento, quella femminile. Ma forse non c’è un bersaglio di questa distopia che non sia proprio l’utopia: il vero male sta nell’immaginare che i problemi si risolvano.