Barbari, immigrati, profughi, deportati dell'impero romano
E’ noto che, come diceva Croce, si fa storia sempre del presente, e ogni storia del passato si attualizza in base a quella contemporanea a chi la fa. E’ meno risaputo che l’impulso a studiare epoche considerate decadenti, come la tarda antichità o il medioevo occidentale o il millennio bizantino, non è – nel profondo almeno – mera eccentricità, né ripiegamento erudito di esteti in lutto per il proprio secolo: è invece percezione - all’inizio confusa, su frequenze quasi inudibili, poi sempre più netta – di un’affinità tra quelle epoche e la nostra; e convinzione di poter trovare, interrogando quel passato, risposte alle domande del presente.
Di questo buon uso del passato Alessandro Barbero è da sempre un campione sempre pronto allo scatto. Il suo ultimo libro, “Barbari”, parte da un assunto tanto affascinante quanto apparentemente paradossale: la caduta dell’impero romano come “esaurimento, con conseguenze catastrofiche, della sua capacità di gestire in modo controllato la sfida dell’immigrazione”.
L’attualità di questo punto di vista è evidente. Ma ciò che forse il grande pubblico non sa, e Barbero giustamente ritiene sia ora di fargli sapere, è che già da tempo la storiografia scientifica usa il termine “immigrati” in luogo di quello, per più versi desueto, di “barbari”. E che le “invasioni barbariche”, tornate nel nostro lessico comune in accezioni tanto varie quanto spesso vaghe, segnarono una discontinuità dovuta meno ai mutamenti etnici che a quelli della politica di assimilazione e integrazione perseguita fin dalla nascita di quell’impero romano che si trasformò poi in impero “romèo” o bizantino. In altre parole, i “barbari” ci furono sempre, nella nostra civiltà: anzi, ne furono parte integrante.
La letteratura della tarda antichità è piena, come ricorda Barbero, di riferimenti all’accoglienza istituzionale di immigrati sul territorio dell’impero, entusiastici o indignati a secondo dell’ideologia dell’autore. Dell’accoglienza fanno ad esempio un manifesto i primi leader del cristianesimo di stato: i disegni della Provvidenza vogliono che “tutti i barbari divengano Romani”, e dunque cristiani, e che “la mescolanza del sangue intessa un’unica discendenza da popoli disparati”, scrive Prudenzio. L’elogio del métissage, del melting pot etnico, corrispondeva a una priorità politica per la giovane chiesa cristiana, che aveva la sua massa di manovra negli strati svantaggiati della popolazione. E gli immigrati, che premevano alle frontiere per ottenere col permesso d’entrata l’assegnazione automatica di casa e lavoro, erano un investimento tanto più utile in quanto destinati al reclutamento nel lavoro agricolo e nell’esercito, entrambi da sempre fondamentali nella diffusione di ogni culto religioso. E’ un’attrazione fatale, quella dei politici cristiani per i “barbari”, che ha in fondo ancora oggi una sua continuità nelle attenzioni della chiesa cattolica verso gli immigrati extracomunitari. A quel tempo la “comunità” di appartenenza o non appartenenza era incontestabilmente l’impero romano, l’integrazione nel quale, e Barbero lo spiega bene, è diversamente declinata e progressivamente ampliata nel corso dei secoli che separano i due estremi cronologici entro cui si estende il libro: da Augusto a Teodosio, passando per Marco Aurelio e poi per quella che Barbero chiama “la sanatoria del 212”, e cioè la Constitutio Antoniniana.
D’altra parte, le più aggiornate ricostruzioni degli atti di governo configurano “una regolamentazione, se non addirittura una politica, dell’immigrazione”; tanto che, come ha scritto Claudia Moatti, “l’idea di immigrazione illegale applicata alle società pre-contemporanee non è affatto anacronistica”. La differenza principale fra l’immigrazione antica e quella odierna finisce per consistere, come scrive Barbero, “in questo: che in epoca romana il fenomeno si attuava normalmente in forma collettiva e assistita anziché attraverso una somma di percorsi individuali”, e ciò consentiva di non far affluire subito i nuovi immigrati nelle città, ma di integrarli progressivamente, insediandoli dapprima nelle campagne e seguendo una pianificazione che teneva conto della congiuntura demografica, oltreché delle esigenze dei grandi proprietari terrieri e dell’esercito.
In quella che deve dunque vedersi non tanto come un’analisi dei movimenti dei “barbari” nel mondo romano ma come un’anamnesi della capacità di quest’ultimo di integrare e assimilare giuridicamente, politicamente e socialmente le popolazioni così chiamate, allo scopo di diagnosticare le cause della cosiddetta caduta dell’impero d’Occidente, Barbero identifica il punto di svolta con la battaglia di Adrianopoli del 378: la celebre sconfitta dell’esercito imperiale da parte dei goti slittati nell’estremo oriente balcanico, in cui perse la vita lo stesso imperatore Valente e che Barbero finalmente porta il lettore a guardare sotto una giusta luce nel capitolo “Ideali umanitari e sfruttamento degli immigrati sotto Valentiniano e Valente”. Quella che l’autore definisce “una brutta storia di profughi prima respinti e poi accettati, di abusi e malversazioni nella gestione dei campi di accoglienza” finì per aprire la strada “ai grandi stanziamenti malcontrollati di barbari che fra IV e V secolo liquidano la nozione stessa di un territorio romano contrapposto al barbaricum e prefigurano la dissoluzione dell’impero d’Occidente”.
Già, d’Occidente. Ma nel V secolo, quando si ritiene tout court che l’impero romano sia caduto, a causa appunto dei “barbari”, né la sua capitale né il suo baricentro economico, politico, sociale erano più nella pars occidentalis. Si trovavano invece nella sua ipòstasi orientale, nell’impero per cui Costantino aveva fondato una Seconda Roma, Costantinopoli, e che noi oggi chiamiamo bizantino ma si autodefiniva, e per tutto il medioevo sarebbe stato considerato, impero romano. E qui la politica di assimilazione etnica, contrariamente a quanto accade in un Occidente ormai quasi del tutto disertato dagli investimenti delle élites, non fallisce di certo, anzi, inaugura un nuovo, politicamente creativo millennio “romano” di integrazione: il millennio di Bisanzio. Che nasce – e sono proprio le parole conclusive dell’esemplare libro di Barbero - con quella “che siamo soliti definire la caduta dell’impero romano, dimenticandoci di aggiungere «d’Occidente»”.