Dove ha sbagliato l'Elmo di Scipio
La cosiddetta vocazione mediterranea dell’Italia è tornata alla ribalta. Le luci della geopolitica mondiale si sono riconcentrate nei nostri paraggi. Possiamo equivocare e dimenticare che la grande corrente della storia del mondo passa lontano da qui, tra le due sponde del Pacifico, per esempio, e che i piccoli lembi di terra che prendono i titoli di prima pagina, Israele, la Palestina, il Libano, sono scintille di un incendio che ha altrove le sue praterie, e che bisogna restituirle di corsa alla loro periferica piccolezza. Anche il più vasto Medio Oriente deve il suo peso al petrolio e all’insipienza e all’affarismo che hanno impedito finora al mondo ricco di trovare altre fonti di energia e di affezionarsi alla sobrietà. È pazzesco che ci siamo ridotti al punto di essere più spaventati dal prezzo del petrolio che dal costo dell’odio.
Si cerca nella storia il punto in cui abbiamo sbagliato, in cui è cominciata la rovina. I bizantinologi, per esempio, sono creature risentite, e ne hanno due ragioni. La prima, che la gente misconosce la grandezza di Bisanzio. La seconda, che se si fosse fronteggiata come si doveva la minaccia turca, Bisanzio non sarebbe caduta nel 1453. Silvia Ronchey lo proclama (L’enigma di Piero, Rizzoli): quel 29 maggio 1453 ha precipitato la storia del mondo più che non abbia fatto l’11 settembre, ben altro impegno doveva mettere il mondo cristiano nella crociata per salvare il suo impero. Oggi proviamo a rimediare facendo entrare la Turchia nell’Unione Europea e tenendo presente la lezione antica.
Ho appena letto un libro di Vittorio Ianari «Lo stivale nel mare » (Guerini, prefazione di A. Riccardi), che ricostruisce la politica mediterranea italiana tra l’unità e la guerra di Libia, 1911, e si imbatte continuamente nel fardello della storia. Il grande storico di Roma Theodor Mommsen si rivolse così a Quintino Sella, nel 1871, appena tolta Roma al papato: «Che cosa intendete fare? A Roma non ci si sta senza avere propositi cosmopoliti » (domanda che piacerebbe a Walter Veltroni).
Noi che ci battiamo oggi per l’ingresso di Israele nell’Unione Europea (e della Palestina, e del Libano, e della Giordania, chissà...) leggiamo con esitazione Giuseppe Mazzini: «Tunisi, Tripoli e la Cirenaica formano parte di quella zona africana che appartiene, veramente fino all’Atlante, al sistema europeo. E sulle cime dell’Atlante sventolò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterraneo si chiamò Mare nostro». E già nel 1852 Pasquale Stanislao Mancini: «È forse impresa impossibile rendere nuovamente il Mediterraneo qual natura lo fece, qual fu per secoli, un lago italiano?». Impossibilissima, naturalmente.
Sul Mediterraneo africano l’Italia sentì di avere una specie di prelazione, un diritto ereditario, venuto dagli avi romani: discendenza, del resto, piuttosto rimescolata. Scipione l’Africano campeggia su questo scenario, il famoso elmo di Scipio che dall’innocente Goffredo Mameli è arrivato, piuttosto rimescolato, fino agli innocenti calciatori. Ianari ricostruisce una presenza folta e vivace di italiani dalla Turchia al Marocco, costituita nei secoli, ma ingrossata nei decenni postunitari. L’italiano era una specie di lingua franca, parlato alla corte d’Egitto e usato nei documenti pubblici, finché la dominazione francese e inglese ridusse e confinò le comunità italiane, con una peculiare gelosia della Francia, rivale soprattutto in quella Tunisia che aveva la comunità italiana più numerosa.
Anche la popolarità degli italiani, quella cui tuttora si fa appello (incrociando le dita) nel Libano, aveva dalla sua, prima della guerra con i turchi (e con i resistenti arabi) per la Libia, e nonostante le spedizioni africane, l’estraneità dell’Italia alla gara colonialista. Che poi si mostrò come un mero ritardo, e dissipò il patrimonio di convivenze; che Ianari rintraccia, ricostruendo gli ingredienti di una politica islamica dell’Italia. Faticosamente, perché la politica islamica procedette a tentoni e fino a tempi assai recenti, nonostante la prossimità, l’ignoranza del mondo arabo e più ancora dell’islam è stata fra noi madornale. E adesso, i corsi di recupero sono piuttosto trafelati, come di chi sia inseguito.
È istruttivo scoprire l’immigrazione italiana (siciliana soprattutto, per un verso, «livornese» per l’altro, cioè di ebrei trapiantati a Livorno dalla Penisola Iberica). Le migliaia di chilometri di costa, colpevoli oggi di attirare troppi migranti, servirono all’opposto allora. A Tunisi, all’inizio del ’900, c’erano centomila italiani: il doppio dei francesi. «Con una volontà quasi sovrumana, zappavano, seminavano, vivevano di un pugno di farina e di una cipolla cruda, mangiando a volte perfino l’erba dei campi... intanto piantavano la vigna. In pochi anni, si trasformavano in proprietari».
Ad Alessandria, in Egitto, dove vivevano letterati come Ungaretti, Pea, Marinetti, nel 1909 c’erano due giornali anarchici: L’idea e Risorgete. A promuovere la cultura italiana erano, a gara, la laica Dante Alighieri e i missionari cattolici.
La retorica navale culminò in Gabriele D’Annunzio: «Fa di tutti gli oceani il mare Nostro!». La preghiera del marinaio di Antonio Fogazzaro, tuttora in vigore, si accontenta di invocare sul nemico il terrore della nostra bandiera, e: «Fa che per sempre la cingano in difesa petti di ferro».
Ianari ricostruisce l’attività del medico bolognese Enrico Insabato, incantato dall’Islam più ortodosso. Nel 1904 auspicava una moschea a Roma: «La pittoresca cupola e l’elegante minareto starebbero là, nella Roma dei papi, a provare che il loro regno è finito per sempre per far largo a quello della tolleranza e della libertà».
Non esattamente.