Enigmi artistici
Da anni la bizantinologa Silvia Ronchey insegue la sua pista, interrogando senza sosta uno dei dipinti più enigmatici della storia dell'arte, la Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca conservato nel Palazzo Ducale di Urbino.
I risultati della sua «caccia al quadro» sono contenuti nelle cinquecento pagine del nuovo libro. Il dipinto è il protagonista della trama, ma attorno ad esso ruotano come in un vortice papi e cardinali, imperatori e marchesi, cortei di dame e cavalieri. Lo sfondo storico e politico della vicenda è uno dei più drammatici della storia europea: siamo alla metà del Quattrocento, l'antica Costantinopoli, capitale dell'Impero Romano d'Oriente, sta per essere ingoiata dalle fauci della Mezzaluna.
L'Occidente è sotto choc. Secondo Silvia Ronchey la Flagellazione di Urbino si comprende solo se inserita in questo fosco contesto.
In passato erano prevalse letture diverse. Roberto Longhi era convinto che il dipinto nascondesse la memoria di Oddandatonio da Montefeltro, trucidato nel 1444; altri studiosi come Gombrich o Bertelli rifiutarono la storicità delle figure rappresentate, preferendo tentare letture allegoriche-biblico-teologiche. Nel 1950 Kenneth Clark fece da apripista a un nuovo filone di lettura: la tavoletta andava associata alle sofferenze della Chiesa flagellata dall'avanzata dei Turchi. Su questo solco s'è inserita Silvia Ronchey.
La sorte di Bisanzio sarebbe il vero tema del quadro. Le tre figure poste in primo piano si riferirebbero ad avvenimenti che si svolsero nel 1459, probabile anno della realizzazione del quadro. La parte di sinistra invece, posta come in retroscena, farebbe invece riferimento a un episodio avvenuto nel 1439, però da mettere in relazione col colloquio in primo piano.
Nel 1453 Bisanzio era caduta nella mani del sultano Mehmet II. Nel 1459, su invito di papa Pio II, si riunì a Mantova un vertice internazionale nel disperato tentativo di organizzare la riscossa cristiana in Oriente e in particolare nella Morea, ultima roccaforte bizantina che ancora resisteva all'avanzata turca. Sul trono di Morea il papa voleva reinstallare Tommaso Paleologo, l'ultimo esponente in vita della famiglia imperiale. Il cardinale Bessarione era stato il grande artefice del concilio.
Secondo Silvia Ronchey, la parte destra del dipinto, illustrerebbe i protagonisti di questi fatti, i quali convenerunt in unum, come recitava la perduta iscrizione sulla base del dipinto. Il terzetto sarebbe così identificabile: come già aveva intuito Carlo Ginzburg (1981), il Bessarione è la figura col turbante all'orientale, la barba biforcuta, le vesti eleganti e gli stivaletti da viaggio. Bessarione sta parlando col gentiluomo in broccato che si trova all'estrema destra. In passato si è voluto riconoscere in lui Giovanni Bacci, il committente degli affreschi di Piero ad Arezzo, ma la Ronchey propone adesso di riconoscervi Niccolò III d'Este. E chi sarebbe il giovane apollineo che sta muto al centro della scena? Studiosa del mondo e del cerimoniale bizantino, Silvia Ronchey osserva che il giovane veste la porpora, il panno esclusivo degli imperatori. Il giovane è bello, biondo, con gli occhi azzurri come le fonti descrivono l'ultimo rampollo della casata imperiale, quel Tommaso Paleologo giunto nel 1460 in Italia «spogliato, profugo, nudo, rivestito solo dei suoi natali». La Ronchey fa notare che il giovane è scalzo. Un fatto altamente simbolico: un imperatore bizantino era tale solo se indossava le pantofole del basileus. Tommaso Paleologo è scalzo perché è stato detronizzato.
Se sono loro i tre personaggi del "proscenio" e due di loro stanno parlando, che cosa si stanno dicendo? Come in un flashback, ottenuto grazie all'applicazione della prospettiva, il "retroscena" a sinistra ci riporta indietro nel tempo alle discussioni che animarono il concilio di Firenze, celebrato nel 1439 alla presenza dell'imperatore Giovanni VIII Paleologo e di Bessarione per sancire la riunione della chiesa latina e quella orientale. Bisanzio e la cristianità erano in grave pericolo, erano sottoposte a flagelli come Cristo alla colonna. Nel dipinto si vede l'imperatore Giovanni VIII (e non Pilato come s'è creduto) che assiste alla scena del supplizio, seduto in trono, di profilo (come in una celebre medaglia di Pisanello), con le insegne della sua dignità bene in vista, il cappello a punta, la veste e le pantofole purpuree. La scena della flagellazione sembrerebbe ambientata a Costantinopoli, città che all'epoca conservava molte reliquie della Passione, tra cui la colonna della flagellazione. Il signore di spalle col turbante in testa che assiste al supplizio è con ogni probabilità il sultano Mehmet II, colui che non è ancora giunto a Bisanzio ma che vede da vicino l'umiliazione del cristianesimo e del suo impero.