Distillato di vite celebri
Questo libro ha un segreto», rivela nell’ultima pagina una nota dell’editore, discretamente siglata G. B.(ma non è un segreto che si tratta di Ginevra Bompiani, anima di nottetempo).
In questi casi il recensore dovrebbe sforzarsi di non tradire il gioco; ma è impossibile parlare di queste sessantacinque vite di poeti, scrittori e filosofi senza svelare che Silvia Ronchey le ha composte con un mosaico di citazioni dalle loro opere, così che ognuna è «più che vera». Chi desideri averne un riscontro può visitare il sito della casa editrice, dove risolvendo tre enigmi – peraltro non facilissimi, a meno d’essere un erudito classicista – si ha accesso al regesto di tutte le fonti utilizzate dall’autrice.
Aggirarsi in questo libro significa fare incontri folgoranti con gente che pensavamo di conoscere fin troppo bene, ma ci sbagliavamo. Si veda la vita di Catullo, «il cucciolo» come traduce in modo filologicamente impeccabile l’autrice: dove fra l’altro ci si chiede cosa fosse davvero quel passero di cui la sua fanciulla tanto si deliziava, e si dà una risposta che al liceo non era prevista. Ma la formula è buona anche perché permette di far dialogare fra loro autori che nella vita vera non hanno avuto l’occasione di farlo: così, se per Baudelaire «amare le donne intelligenti è un piacere da pederasta», ecco che André Gide(il quale appunto «fu uno scrittore, un viaggiatore, un memorialista, un pederasta »)gli ribatte:«All’uomo è necessaria molta intelligenza per non restare, con uguali qualità morali, sensibilmente inferiore alla donna ».
Silvia Ronchey ha confessato in pubblico di aver impiegato dieci anni per scrivere questo libro, e si può crederle, se si pensa che le due o tre pagine di ogni biografia sono il distillato di un’opera omnia lungamente frequentata. Uno dopo l’altro, gli «spiriti magni» con cui dialogava le hanno ceduto ora una frase, ora un’immagine in cui parlavano di sé o svelavano la propria idea del mondo, e l’autrice li ha condotti per mano, senza che se ne accorgessero, a scrivere la propria autobiografia. Solo due si sono ribellati quando hanno scoperto il gioco, come apprendiamo dal regesto: il gesuita padre Athanasius Kircher, il quale «dopo una lunga conversazione davanti alla mummia di Roberto Bellarmino nella chiesa di Sant’Ignazio a Roma» ha imposto di citare, e per esteso, soltanto il lunghissimo titolo del suo Oedipus aegyptiacus, e padre Pavel Florenskij, il grande teologo ortodosso scomparso nei lager staliniani, il quale «non ci ha permesso di fornire rimandi bibliografici». «Chi non ha la costanza di leggere interamente la mia opera », ha detto, «non merita di ritrovare le mie frasi ». Accomunato a Florenskij dall’ordine alfabetico e dall’interesse per l’umana stupidità, Flaubert ha cercato di fare di peggio: come osserva l’autrice, «levigò i suoi libri a tal punto che non se ne possono trarre citazioni».
Come avrà fatto allora Ronchey a scrivere di lui? Un controllo rivela che il mosaico di citazioni, stavolta, è quasi interamente tratto dalle lettere di Flaubert, meno ossessivamente levigate dei suoi libri. Citiamo questo caso perché giocando con le parole e con le idee dei suoi interlocutori l’autrice sembra talvolta, com’è giusto, parlare più di sé e della propria fatica che non di loro. Così nella vita di Luciano di Samosata leggiamo che «i suoi scritti erano un mosaico di citazioni letterali dai testi classici e dai loro più autorevoli esegeti. Per fare questo gioco letterario occorrono: una notevole biblioteca, una notevole cultura, una notevole presunzione e una notevole disperazione ».
E Silvia? «Tu sei quell’uomo», potremmo dirle; o almeno, per essere politicamente corretti come il sottotitolo del libro, «Tu sei quella persona»