Il lungo filo rosso da Platone ad oggi
L'autrice, Silvia Ronchey, è una lettrice infaticabile. E forse anche per questo il suo ultimo libro (Il guscio della tartaruga. Vite più che vere di persone illustri, Ed. Nottetempo, pp. 244, euro 15.50) ha un modello principale, la Biblioteca di Fozio. Interferiscono ovviamente anche altri modelli collaterali, tra cui, in tacita ma ben visibile contrapposizione sin dal titolo, le Vite immaginarie di Marcel Schwob.
Come nel caso del grande repertorio foziano qui si potrebbe essere indotti a dire che siamo di fronte alle «letture fatte da quando ho l'uso della ragione» (come dice il Patriarca nell'ultima pagina); tolte beninteso le letture formative e istituzionali. Le citazioni da fonti certe sono incorporate nel racconto e diventano parte integrante di esso. TI filo conduttore è la citazione implicita come omaggio alla fonte che si ha davanti: cosa di più "ellenistico"? Alcuni autori prediletti dall'autrice sono omessi, e forse questa forma di omaggio silenzioso, per esempio verso autori quotidianamente frequentati come Fozio o Psello, vuol essere il punto più alto di un tale gioco letterario. Lo scrupolo filologico che sottende il lavoro (e che in Schwob è invece molto intermittente e mai dominante) si manifesta nella pagina finale dove viene preannunciato un complicato gioco superato il quale il lettore accede a centinaia di pagine di fonti che documentano passo passo, frase dopo frase, quanto narrato nel testo.
Servendosi della strada più rispettosa, quella della adesione piena ai testi, l'autrice conduce il lettore alla comprensione di punti essenziali della vita intellettuale antica. Il breve capitolo su Platone è particolarmente riuscito: non passerà inosservata l'intuizione di cosa significasse e come fosse centrale per Platone la lunga frequentazione di un «maestro». Forse solo alcune straordinarie pagine di Giorgio Colli sulla giovinezza di Platone (penso alle lezioni sui «filosofi sovrumani») accostano altrettanto efficacemente il lettore al delicato problema.
Con un procedimento che fu definito «arte allusiva» viene fatto puntuale cenno almeno una volta al precedente (non bello forse, ma significativo) di Marcel Schwob, al quale è riservato l'onore di essere trattato al pari di una fonte antica. Ecco infatti l'esordio del capitolo lucreziano: «Tra il sesto consolato di Mario e la dittatura di Silla, in anni di stragi e di terrore, apparve Tito Lucrezio Caro, al! 'ombra del portico nero di una remota casa di montagna». Di Lucrezio resta nel lettore una forte immagine, incentrata sul severo e disilluso finale del libro quarto.
In altri casi la suggestione moderna è meno trasparente ma il lettore accorto può avventurarsi e identificarla addentrandosi nel fitto repertorio delle fonti. Penso all'avvio del capitolo su Plotino. O meglio su Plotino e Mani, l'uno al seguito di Gordiano III, l'altro al seguito di Shapur: due "illuminati" al seguito di sovrani che si facevano la guerra, mentre invece loro, i due mistici, erano così affini «nel tempo in cui tutto il mondo, dalla Grecia all'India, aveva fatto confluire le sue segrete correnti di sapienza nell'alveo del pensiero di Platone». Qui c'è anche la eco di Toynbee, Il mondo e l'Occidente, in particolare di quel capitolo in cui il grande storico inglese descrive la trasformazione spirituale, e perciò la fine, del mondo antico.
Ma c'è qualcosa che davvero finisce nei processi storici? Non è forse proprio il neoplatonismo - cui l'autrice dedica tanta attenzione e tanta passione uno dei grandi fili conduttori, pur nel mutare (per lo più apparente) delle credenze religiose, della storia dell'Occidente?
Questo libro ha vari meriti, non ultimo quello di mescolare gli antichi e i meno antichi con i moderni e con i contemporanei. Che è forse lo strumento più efficace per far comprendere ai nuovi lettori che gli antichi sono più che mai tra noi e che solo un male inteso "classicismo della scuola" li ha relegati in un remoto iperuranio rischiando di soffocarli.