Silvia Ronchey racconta storie brevi, dunque più che vere. Cioè ci salva
Qual è il filo che lega lo storico Arriano, coevo dell’imperatore Adriano ed emulo ammirato di Senofonte, ad André Gide, che quando scriveva provava “le angosce di un tisico in una stanza troppo angusta”? Se il primo almanaccò attorno al nodo gordiano sciolto, chissà come, da Alessandro, il secondo ebbe il grande torto “di non aver sciolto il nodo gordiano con cui Céleste, la governante di Proust, aveva chiuso il pacco del dattiloscritto del suo padrone per inviarglielo in lettura”.
Vi sembra un nesso arbitrario, un po’ troppo acrobatico? Cambierete idea, se leggerete “Il guscio della tartaruga. Vite più che vere di persone illustri”, che la bizantinista Silvia Ronchey ha appena pubblicato per Nottetempo. Attraverso sessantacinque brevi biografie, presentate in ordine alfabetico e nel più assoluto disordine cronologico – dalla A di Agostino fino alla Z di Zenone, passando per il re David e Kerouac, Huxley e Petronio, Platone e Rilke, Saffo e Teresa d’Avila, Stevenson e Terenzio, Virgilio e Voltaire – veniamo accompagnati alla scoperta di cento e più legami segreti, documentati o immaginati, illuminati e resi “più che veri” da un’indagine amorosa ed erudita.
Si può prendere questa antologia di vite come un breviario d’umanità, una nuova “legenda aurea” che celebra un genere particolare di santità. Quella di chi visse e morì cercando e cercando ancora, perché a chi cerca tutto può essere perdonato, anche l’eresia (soprattutto quella).
E’ la santità, che fu di Socrate e di Gregorio Palamas, di Seneca e di Athanasius Kircher, di chi vuole conoscere se stesso, anche se sa bene che la vita intera gli non basterà. Le biografie (due o tre pagine) hanno un andamento composto, secco, volutamente ripetitivo, hanno incipit da rosario laico, ritmo da lodi bizantine: “Thomas Merton fu un monaco, un mistico, uno scrittore, un poeta, uno degli Asceti nascosti del Novecento”; Verlaine “fu uno spedizioniere all’Hotel de la Ville, un carcerato in Belgio, un professore in Inghilterra.
Fu ovunque un etilista, un tossicomane, un bruto, un poeta”. Finché ci sono storie di uomini e donne da narrare, c’è speranza: speranza di potersi muovere nella storia, di saperla riconoscere e ascoltare anche quando gioca a farsi incomprensibile e opaca.
Salvare le storie degli uomini è salvare noi stessi, è proteggerci con l’impenetrabile e lucido guscio della tartaruga. Perfetto nume tutelare, capace di avanzare lenta e sicura tra riferimenti curiosi, aneddoti scelti per la loro rarità o stravaganza, immagini folgoranti, ispirazioni inaspettate e rimandi enigmatici (“Rainer Maria Rilke non nacque né su ordinazione né per ambizione del nostro tempo, ma per essere il suo contrappeso”; “Gaio Petronio nacque in giorni in cui pagliacci vestiti di verde facevano passare giovani maiali addestrati attraverso cerchi di fuoco”).
Il guscio della tartaruga, il carapace che la occulta e la protegge, non aderisce al corpo dell’animale ma racconta ciò che essa è, in essenza.
Anche le sessantacinque vite accostate per simpatia o per caso da Silvia Ronchey compongono un mosaico-carapace che racconta l’essenziale ma chiede di essere compreso oltre la lettera. Chi lo vorrà, dopo aver risposto a tre indovinelli sul sito di Nottetempo, capirà in che senso.