La Frusta Letteraria
Nella breve introduzione del suo libro Ipazia - la vera storia Silvia Ronchey ci avverte subito che della filosofa di Alessandria “non sappiamo molto”, che “siamo certi, o quasi, di ciò che quella donna non è stata”, che “un’altra cosa è quasi certa: cercava la verità, amava il dubbio, detestava la manipolazione”, ma che “se, nella storiografia è stata strumentalizzata, nella letteratura è stata trasfigurata e tradita”, e per cercar di capire meglio che cosa si cela dietro tutto quello che si è scritto di lei e voluto vedere in lei occorre “non aggiungere tratti ma se mai sottrarre, ai pochi che la tradizione antica tramanda, quelli che l’analisi dell’esile fascicolo di testimonianze originarie rimaste su di lei ci suggerisce falsi o distorti”. Dopo questa premessa, il lettore potrebbe domandarsi come sia riuscita l’Autrice a riempire le successive 178 pagine di testo dedicate alla narrazione della vera storia di Ipazia (seguite da altre 110 di non meno interessante “documentazione ragionata” e bibliografia). Ci è riuscita, in modo avvincente e con accademico rigore, perché la storia di Ipazia che ci viene offerta non è tanto, o soltanto, una biografia (né potrebbe esserlo, per la riconosciuta carenza di materia prima): la vera storia che il libro ci offre è, di fatto, soprattutto la storia di un mito e del suo intreccio con la Storia. Per quel che rappresenta dei ricorrenti e diversificati comportamenti umani nei conflitti ideologici e nelle lotte per il potere in ogni epoca, l’origine e l’evoluzione di questo mito non sono meno illuminanti di quanto lo sarebbero se il ritrovamento di qualche documento nascosto fosse venuto a dissipare la nebbia nella quale sono rimasti avvolti i dettagli di quella vita sicuramente tanto eccezionale nel suo svolgimento quanto tragica nella sua conclusione. Alessandria d’Egitto era stata per molti secoli uno dei principali centri della cultura dei paesi del Mediterraneo, con la sua Biblioteca e il suo Museo, istituzioni che fin dalla loro fondazione nel terzo secolo a.C. avevano attratto i più grandi studiosi, tramandando e facendo progredire, in particolare, il pensiero filosofico e le conoscenze matematiche e astronomiche ereditati dall’antica Grecia. Lo era ancora negli ultimi decenni del quarto secolo, quando Ipazia si è formata sotto la guida del padre Teone, rinomato sapiente, in un ambiente di studio che era stato per secoli pluralistico e caratterizzato dalla dialettica e dalla tolleranza. Ma dopo l’editto dell’Imperatore romano Teodosio che stabiliva l’adozione, nel 380, del cristianesimo come religione di stato, e la nomina, nel 384, di Teofilo alla cattedra vescovile di Alessandria, poi passata alla sua morte, nel 412 al nipote Cirillo, l’ambiente in quella città è andato rapidamente degenerando fino all’instaurazione di un vero clima di terrore, proprio negli anni in cui per la sua opera (poi andata dispersa) e con il suo insegnamento Ipazia raggiungeva universale rinomanza e rispetto. Teofilo inizia ad Alessandria la persecuzione del politeismo, e ordina la distruzione dei monumenti della civiltà greca, in particolare del tempio e della biblioteca di Serapide. Cirillo (poi canonizzato, considerato dai cattolici romani così grande teologo da essere elevato al rango di dottore della Chiesa da papa Leone XIII nel 1882, e lodato per la sua “grande energia” da Benedetto XVI nel 2007), in aperto contrasto con il prefetto imperiale Oreste rappresentante dell’autorità civile, piuttosto che cercar di convertire con la predicazione e le argomentazioni teologiche, trova più efficace e sbrigativo affermare la propria concezione del cristianesimo scatenando i parabalani, una sorta di milizia di monaci le cui orde, dopo aver perpetrato massacri per scacciare gli Ebrei dalla città e sopraffare i Novaziani (Cristiani che Cirillo considerava eretici) appropriandosi dei beni degli uni e degli altri, nell’anno 415 si rendono responsabili del selvaggio linciaggio di Ipazia. Di Ipazia non sarebbe probabilmente rimasta memoria se due suoi contemporanei, entrambi cristiani ma appartenenti al ramo tollerante del Cristianesimo che si stava affermando a Costantinopoli, non avessero scritto e parlato di lei. Il primo, Sinesio di Cirene, l’ha conosciuta personalmente e frequentata a lungo essendo stato per anni suo allievo ad Alessandria. La sua testimonianza si desume dal suo ampio epistolario. I riferimenti a Ipazia nelle sue lettere le manifestano sempre immenso rispetto, quasi venerazione. A lei direttamente scrive: Credimi, io ti considero, insieme alla virtù, l’unico bene che nessuno mi può togliere. E poco prima di morire le rivolge i seguenti versi: Se anche l’oblio tocca ai morti nell’Ade, anche laggiù ricorderò l’amata Ipazia. Sinesio. originariamente pagano, si convertì al cristianesimo e divenne vescovo di Tolemaide. Ma sembra lecito supporre che la sua conversione sia stata determinata più da opportunismo politico che da autentica convinzione, come denotano espressioni di scetticismo contenute in alcune sue lettere riguardo a credenze fondamentali della fede cristiana. Scrive ad esempio: Riguardo alla resurrezione, di cui tanto si parla, sono ben lontano dal conformarmi alle opinioni del volgo. Il secondo, Socrate Scolastico, anch’egli cristiano e contemporaneo di Ipazia, era uno storico e viveva a Costantinopoli. Sebbene la sua conoscenza di Ipazia fosse indiretta, non vi sono motivi di dubitare dell’attendibilità del suo ritratto: C’era una donna allora ad Alessandria, il cui nome era Ipazia. Era figlia di Teone, filosofo della scuola di Alessandria, ed era arrivata ad un tale vertice di sapienza da superare di gran lunga tutti i filosofi della sua cerchia. Aveva ricevuto in eredità l’insegnamento della scuola platonica da Plotino, ed esponeva a un libero uditorio tutte le discipline filosofiche. Da ogni parte accorrevano a sentirla quelli che volevano darsi alla filosofia. E ancora: Non aveva paura di apparire alle riunioni degli uomini: per la sua straordinaria saggezza, tutti i maschi le erano deferenti e la guardavano, se mai, con stupore e timore reverenziale. Questi sono i tratti prevalentemente ripresi e tramandati, con integrazioni e inevitabili distorsioni, dagli storici bizantini nei secoli successivi. Si può dire che con Ipazia muore ad Alessandria la cultura ellenica (anche se la chiusura ufficiale della scuola avverrà solo nel 529), ma la sopravvivenza del mito di Ipazia, assieme al perdurante rispetto della cultura da lei rappresentata, passa da Costantinopoli, dove il suo ricordo rimane vivo per tutta la durata dell’Impero Bizantino. La figura di Ipazia affiora in Europa occidentale soltanto a partire dal diciassettesimo secolo, quando finalmente scrittori, filosofi e scienziati osano criticare e sfidare il dogmatismo e l’intolleranza religiosa. Il mito permea l’Illuminismo che se ne vale prima di tutto proprio per stigmatizzare intolleranza, fanatismo e persecuzioni, e anche per esaltare il culto della ragione e per affermare i meriti e le potenzialità intellettuali delle donne. Ripetutamente evocata da Voltaire, accolta con un articolo nell’Encyclopédie di Diderot, introdotta nella storiografia moderna da Gibbon in The history of the decline and fall of the Roman Empire (1776), e più tardi accolta nell’opera di eminenti storici della filosofia quali Friedrich Ueberweg, Karl Praechter e Bertrand Russell, Ipazia è diventata un’icona dell’anticlericalismo, della massoneria e del femminismo, spesso manipolata con diversi livelli di esagerazione, fantasia, distorsione o deliberata falsificazione.
Per farsi un’idea del tono della polemica suscitata dal suo ricordo nel XVIII secolo, vale la pena di leggere i titoli di due pamphlet contrapposti, che prendiamo in lingua originale da una conferenza di J. Thorp (The search of Hypatia, www.acpcpa.ca/documents/Thorp.html): Hypatia, or the History of a Most Beautiful, Most Virtuous, Most Learned and in Every Way Accomplished Lady; who was torn to Pieces by the Clergy of Alexandria to Gratify the Pride, Emulation and Cruelty of the Archbishop, Commonly but Undeservedly titled St. Cyril, (John Toland, 1720) History of Hypatia, a most impudent School-Mistress of Alexandria. In Defense of Saint Cyril and the Alexandrian Clergy from the Aspersions of Mr. Toland. (Thomas Lewis, 1721). Nel testo, Toland sostiene tra l’altro che Ipazia continuerà sempre a rappresentare la Gloria del suo Sesso e l’Infamia del nostro, parere che verrà ripreso da molti e, naturalmente, esaltato dai movimenti femministi. Lo scontro non si è limitato alla contrapposizione tra cattolici e liberi pensatori. Viva è stata la partecipazione di protestanti, quale Johann Christian Wolf nel Settecento, e di anglicani, quale Charles Kingsley nell’Inghilterra vittoriana. Il libro di cui si parla ci dà un esauriente resoconto delle varie posizioni, diversificate anche all’interno del mondo cattolico. Accanto alle contrapposizioni ideologiche, la figura di Ipazia ha stimolato anche la sensibilità di artisti, romanzieri e poeti. Il fascino, la sapienza e la bellezza di cui sembra aver goduto in vita, uniti alle cause e alle modalità del suo martirio, agli ideali che si presta a rappresentare e, non meno importante -come sottolinea Thorp nella citata conferenza- al mistero che continua ad avvolgere la sua vita reale, hanno fatto di lei la perfetta eroina romantica. Nello struggente inno Hypatie (in Poèmes antiques), Leconte de Lisle le rivolge versi memorabili:
L’homme en son cours fougueux t’a frappée et maudite, mais tu tombas plus grande ! Et maintenant, hélas ! Le souffle de Platon et le corps d’Aphrodite, sont partis à jamais pour les beaux cieux d’Hellas !
La mort peut disperser les univers tremblants
mais la beauté flamboie, et tout renaît en elle, et les mondes encore roulent sous ses pieds blancs.
Analoghe acclamazioni si leggono, con toni diversi, in Chateaubriand, Gérard de Nerval, e più tardi Péguy. Ma neanche tra i letterati manca il deciso dissenso, e il cattolico oltranzista Paul Claudel esclama sprezzantemente (in La Sainte Catherine d’Alexandrie, 1937):
Que le Païen Garde son bien, George Sand et Hypatie !
Negli ultimi anni, alla ripresa di popolarità del mito di Ipazia sembra aver molto contribuito la fondazione, nel 1986 negli U,S.A., di una rivista intitolata Hypatia: a Journal of feminist Philosophy, seguita, anche in Europa, da articoli, saggi e libri significativamente numerosi anche se spesso di scarsa attendibilità. La parola “Hypatia” rinvia a oltre due milioni di siti Internet), e il personaggio è giunto al grande schermo nel 2009, con un film di successo nonostante le sue evidenti forzature e discutibili licenze. Come si addice alla sua figura, Ipazia non ha mai smesso di essere fonte di impegnate discussioni e appassionati dibattiti e idealizzazioni. Ma anche di esagerazioni e distorsioni più o meno strumentali, e di tendenziose falsificazioni. Con la sua narrazione e la presentazione critica di una sconfinata documentazione, Silvia Ronchey ci accompagna in questo lungo e ramificato percorso con il rigore della studiosa, ma senza nascondere le proprie simpatie. Il testo si conclude con una riconferma delle perduranti incertezze sulla reale personalità di Ipazia, e al tempo stesso manifesta una decisa presa di posizione sul valore del suo mito (pag. 193): Ma su un punto non si può non essere concordi: a qualunque cosa Ipazia sia somigliata di più, a una studiosa o a una sacerdotessa, a una composta insegnante o a un’aristocratica eccentrica e trasgressiva, che sia stata giovane o no, che abbia fatto davvero innamorare i suoi allievi, che abbia o no –non è escluso- scoperto qualcosa di nuovo; che l’insegnamento iniziatico da lei impartito con tanto successo all’inquieta aristocrazia ellenica offrisse o no già la rivelazione che a un livello alto la teologia platonica inglobava quella cristiana e che gli improbabili dogmi di quest’ultima andavano tollerati, praticando l’arte platonica della “nobile bugia”, perché utili al popolo quanto ogni antica superstizione pagana; che sia stata risoluta nello sbarrare il passo all’ingerenza della chiesa nello stato, e troppo ingombrante nello sfidare la strategia di Cirillo con la sua parrhesia, o che la morte sia stata solo un incidente dovuto al subitaneo isterismo di un influente prelato cristiano ottenebrato dall’emulazione e dall’ambizione, oltreché al momentaneo disorientamento di un prefetto Augustale romano messo in difficoltà da un vuoto di potere imperiale; in ogni caso, ogni volta che nella storia si ripropone, e si ripropone spesso, il conflitto tra un Cirillo e un’Ipazia, una cosa è certa: siamo e saremo sempre dalla parte di Ipazia. “Siamo e saremo”: una prima persona plurale che forse ci comprende in tanti, ma oggettivamente sembra rappresentare solo una piccola minoranza dell’umanità se si considerano i comportamenti prevalsi nei sedici secoli di Storia che ci separano da Ipazia, e persistenti nel mondo di oggi.