Ipazia, né santa né strega
Il suo assassinio fu uno scandalo che, in quindici secoli, in fondo non si è mai spento. E, a distanza di quindici secoli da quel marzo del 415 dopo Cristo, in cui Ipazia fu fatta a pezzi, dilaniata dai cocci aguzzi armati dal fanatismo della prima chiesa cristiana, non ha mai smesso di far parlare di sé la sua storia «non finita con il suo essere accaduta»: così ha scritto Mario Luzi che, sulla sapiente filosofa alessandrina, ha messo in scena un dramma teatrale, intenso e avvolgente, quello della ragione contro le sanguinose conseguenze di ogni assenza di tolleranza. La figura di Ipazia ha continuato a proiettare la luce del suo martirio sulle battaglie ideologiche religiose e letterarie mosse in tempi diversi, e sulla scia di diversi orientamenti. Con grande fortuna “critica”, ha diviso il mondo antico, è risorta nel Settecento illuminista e nell’Ottocento liberale come cavallo di battaglia dei laici anticlericali, martire del primo pensiero proto- femminista. Anche se i laici hanno esagerato nel trasformarla «in una specie di Giordano Bruno», ha detto Eco nel presentare qualche mese fa il bel film di Amenàbar su questa donna da cui è stata accesa la fantasia di poeti e scrittori. Con un giudizio assai lusinghiero, lo stesso Eco ora accompagna il saggio-biografia (Ipazia, Rizzoli, 315 pagine, 19 euro) di Silvia Ronchey che racconta la sua «vera storia», decongestionando le “visioni” e scrostando le “maschere” che l’hanno accompagnata e camuffata da illuminista e romantica, parnassiana, socialista, protestante, massone, agnostica, vestale pagana e santa cristiana. Il tratto felice della narrazione si muove tra ipotesi e confutazioni, scavando dentro i testi che hanno raccontata Ipazia, come su un doppio registro che, in un centinaio di pagine di appendice, organizza con sapienza la «documentazione ragionata», garantendo una seconda lettura più specialistica. «Bizantinista che sa lavorare sui documenti», la Ronchey mette in scena i protocolli indiziari e congetturali di una vera inchiesta che, con «metodica diffidenza», smantella il mito di Ipazia e la sua reinvenzione politico-ecclesiastica e storiografica. E’ un serrato corpo a corpo con le fonti e i documenti che non aggiungono mai tratti, ma semmai sottraggono «ai pochi che la tradizione antica tramanda, quelli che l’analisi dell’esile fascicolo di testimonianze originarie rimaste ci suggerisce falsi o distorti» su questa carismatica maestra di pensiero e comportamento, vittima del papismo per i protestanti, «maga e strega» per i cattolici. Il percorso indiziario narrativo costruisce con piccoli strategici assestamenti l’immagine di una «composta insegnante», morigerata nella vita e nei sentimenti, diretta o quasi brutale nel modo di fare e di parlare, icona di tolleranza e senso di inclusione. Agnello sacrificale dell’ultimo paganesimo, Ipazia cade sotto i colpi del «moto irrazionale dell’invidia» da cui è divorato il suo nemico, il collerico e umorale vescovo Cirillo, poi santo e Padre della Chiesa. Un brutale eccesso di pulsioni mascherato «da programmatico atto di lotta confessionale o - da ipotetica, comunque sommaria - applicazione delle sanzioni imperiali contro stregoni e maghi». Dopo le molte prove della decostruzione dei testi per arrivare a un «nucleo di verità», l’approdo a ciò che Barthes chiama «la soggettività senza prove» è un cuore caldo di forte germinazione nella appassionata scrittura della Ronchey. Una fonte irradiante da cui può essere felicemente illuminata e rigenerata l’intera storia di una «sacerdotessa laica imperturbabile» che amava il dubbio e detestava la manipolazione come Ipazia, vista nei tempi e nelle continue identificazioni-interpretazioni della sua figura.