Il Foglio. Benedetto ci faccia riscoprire quanto è romana Bisanzio
25/11/2006
Nicoletta Tiliacos
Il Foglio
Alla vigilia del viaggio del Papa in Turchia, Silvia Ronchey spiega che sul Bosforo si fa o si disfa la nostra civiltà.
L’importanza del prolungamento dell’impero. Le sue propaggini ottomana e russa. Il ruolo centrale del diritto romano nella storia turca. L’indebolimento del patriarcato ecumenico e le chiese autocefale. L’importanza della liturgia. La capacità di resistere, perpetuare e integrare.
Roma. “In ‘Fuga da Bisanzio’, Josif Brodskji scriveva che ci sono luoghi nei quali i grandi eventi storici sono inevitabili come gli incidenti automobilistici. Uno di quei luoghi oggi si chiama Istanbul, dopo che è stato Costantinopoli e poi Bisanzio”. Punto concreto e simbolico di incontro e scontro tra oriente e occidente, lì dove è atteso, per una visita complicata da forti preoccupazioni oltre che circondata da grandi aspettative, Papa Benedetto XVI. A ricordare la definizione del poeta russo è Silvia Ronchey, studiosa di civiltà bizantina e recente autrice di un libro (“L’enigma di Piero”, Rizzoli) che racconta, attraverso la storia della decifrazione della Flagellazione di Piero della Francesca, come Bisanzio abbia regalato all’Europa il Rinascimento. Al Foglio, Silvia Ronchey dice che “quell’istmo sul Bosforo, tra Asia ed Europa, è sempre stato fondamentale, dalla guerra di Troia in poi. Lì è nata la civiltà greca, ed è lì che, da Costantino in poi, prende vita, tra mille turbolenze ma in modo netto, un modello di convivenza tra etnie diverse che sembra così impossibile da realizzare nella nostra epoca. Tutto nasce da quella che, molto impropriamente, è stata chiamata ‘caduta dell’impero romano’. Ma l’impero sopravvive in quanto e lì dove procura e garantisce proprio quel tipo di convivenza, nella quale la sovranazionalità e la multietnicità, la cooptazione dei conquistati e la composizione dei conflitti si esercitano con successo”.
Guardare verso Costantinopoli con occhi “romani” è quindi, secondo la Ronchey, “qualcosa che dovremmo reimparare a fare. Ciò che abbiamo perso con la caduta di Costantinopoli e dopo, con la rimozione di Bisanzio (basti pensare all’accezione negativa, dura a morire, che ha assunto il termine ‘bizantino’) è questo elemento romano. Che dovrebbe invece essere la bussola per orientarci ogni volta che parliamo di Europa. Penso alla formidabile alleanza, evocata anche da Papa Ratzinger nel suo discorso di Ratisbona, tra filosofia greca e tradizione giuridica e politico-amministrativa romana. Questa alleanza è ciò che chiamiamo la nostra civiltà”. E quello che non tutti hanno chiaro, è che “il diritto romano ha continuato a vivere anche nella Turchia islamica. C’è una storia comune che non possiamo negare, che deve essere un punto di forza.
Quel luogo torna oggi a essere cruciale perché è il punto o di cesura oppure di mediazione nel cosiddetto ‘scontro di civiltà’ tra oriente islamico e occidente cristiano. E’ lì che per millenni è continuato a esistere l’impero romano, che non cade nel 476 in occidente, e nemmeno, se vogliamo, nel 1453, con la conquista turca di Costantinopoli. La tradizione si biforca e prosegue pressoché inalterata in altri due imperi che cadono davvero, invece, uno all’inizio del Novecento (l’impero ottomano), e l’altro alla fine (l’impero ex russo ex zarista e poi sovietico). Imperi multietnici, dove la sopravvivenza della cultura romano-bizantina è apertamente portata avanti”.
Un esempio: “Sappiamo come i sultani, soprattutto all’apice dell’impero ottomano, nel XVI e nel XVII secolo, abbiano non soltanto applicato il diritto, ma mutuato con grande rispetto e precisione le strutture amministrative e fiscali dell’impero bizantino, a loro volta eredi di quelle romane. Lo stesso vale per il mondo russo. Ivan il terribile fa discendere il proprio potere da quello dei Cesari. Una volta cadute queste due ramificazioni, emerge con forza un problema di convivenza. Tutte le zone geopoliticamente più turbolente, dove oggi si manifesta il conflitto, sono quelle dove la composizione dei conflitti tra etnie era sorvegliata e contenuta, magari anche in forma dispotica, da questa ‘romanità’. Balcani, Caucaso, Mar Nero, la stessa Mesopotamia”. Continua dunque a interrogarci “l’eredità bizantina, ora più che mai, una volta esaurite completamente le sue propaggini e ora che la mediazione non c’è più”. Fortunatamente, verrebbe da dire, se si pensa all’impero sovietico, nel quale fu Stalin a “promuovere una grande fioritura di studi bizantini”. Ma, aggiunge Silvia Ronchey, “non è un caso che il Papa attuale, e prima di lui Papa Wojtyla, coautore della caduta del blocco sovietico, abbiano guardato a Costantinopoli, a Bisanzio. E’ lì che ora i nodi vengono al pettine. Nodi, a un tempo, politici, strategici, sociali ed etnici”. E nodi culturali. E’ in quest’ultima categoria, prosegue Silvia Ronchey, che “possiamo collocare il rapporto tra cattolicesimo e ortodossia. L’attuale Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, rappresenta l’ecumenismo ortodosso, quindi il fantasma ingombrante della ricomposizione e del controllo imperiale prima richiamati. Allo stesso tempo, ripropone una realtà fatta di tante chiese autocefale, indipendenti le une dalle altre. Bisanzio e la sua cultura sono state lungamente demonizzate e rimosse, in occidente, perché tipiche di uno stato nel quale il clero è per definizione estromesso dal potere secolare. La naturale conseguenza di tutto questo è stata che la figura del Patriarca non ha mai avuto l’indipendenza del Papa. Frutti di questo tipo di laicità sono stati la passività e la mancanza d’indipendenza del clero”. E’, in fondo, il modello di laicità della Turchia contemporanea, dove, da Ataturk in poi, gli stessi predicatori islamici sono scelti da un ministro. Ma che laicità è quella nella quale l’espressione religiosa e il culto sono controllati dallo stato? “Infatti c’è un limite evidente. Ma non dobbiamo pensare che a Bisanzio sia andata sempre così. Nel 1054, per esempio, quando si consuma lo scisma che ora tocca a Bartolomeo I e a Benedetto XVI affrontare, non si trattò tanto di un problema tra le due chiese, quanto di una prova di forza tra il Patriarca Michele Cerulario e l’imperatore. Il patriarca, grande intellettuale e politico, era desideroso di rivendicare la propria indipendenza, e il mezzo migliore che trovò per farlo fu la scomunica del vescovo di Roma. Ma la soggezione del clero rispetto al potere imperiale non c’è sempre stata, anche se si manifesterà sempre di più con il passare del tempo”.
Nessuna trappola nostalgico-nazionalista
Oggi, però, il problema è che l’ecumenicità di Bartolomeo “può apparire come un pallido fantasma, anche sul piano simbolico. Nella cittadella del Fanar, assediato da una vera e propria persecuzione da parte dell’attuale stato turco, appare vittima di quella integralizzazione islamica che rappresenta, però, un fenomeno relativamente recente”. Ma a maggior ragione, a giudizio di Silvia Ronchey, “dovremmo sforzarci di non cadere nella trappola nostalgico-nazionalista che guarda a Bisanzio come a quella cosa che l’islam ci ha tolto nel XV secolo. In quella perdita hanno contato moltissimo gli errori delle potenze occidentali, di Venezia in primo luogo, più ancora di quelli del papato, che invece in quel periodo aveva fortemente chiara la necessità di mantenere il legame e l’interfaccia con l’oriente islamico. Venezia non invia la flotta e Bisanzio non viene salvata. Cessa così di essere quel preziosissimo strumento attraverso cui l’occidente cristiano parlava, dialogava, comunicava, elaborava strategie, arte, pittura, musica, letteratura, forme di straordinario e fruttuoso sincretismo che in fin dei conti s’intravedono anche nei famosi dialoghi tra il cristiano e il musulmano di Manuele II Paleologo citati da Papa Ratzinger a Ratisbona”.
Se allora venne meno l’osmosi culturale tra oriente e occidente, non si estinse la vocazione imperiale di mediazione tra le etnie, mentre “ora è più forte il bisogno assoluto di ritrovare un’unità. Nel momento in cui alla contrapposizione tra oriente e occidente si sommano il conflitto etnico, economico, strategico, militare, e anche un problema religioso, diventa vitale recuperare ogni stilla, ogni propaggine di quella bizantinità dimenticata”.
Il Papa si troverà anche a fare i conti, aggiunge Silvia Ronchey, “con un problema interno al mondo ortodosso, che nasce dalle autocefalie e dall’indebolimento progressivo del patriarcato ecumenico. E’ evidente in Benedetto XVI la volontà di rafforzare la posizione di Bartolomeo I, con due effetti fondamentali. Sul piano tattico, perché, se ci riesce, il papato avrebbe un unico interlocutore e sarebbe più agevole affrontare la ricomposizione dei contrasti dottrinari. Sul piano strategico generale, perché sono convinta che in questo momento sul Bosforo si fa o si disfa la nostra civiltà. Penso che il viaggio papale avrà successo se, come ha dichiarato lo stesso pontefice, il suo intento è davvero quello di riaccendere il faro del cristianesimo in quei luoghi e, insieme, di riavviare il meccanismo inceppato della mediazione”.
Un interlocutore privilegiato
C’è poi un aspetto, spiega ancora la bizantinista, che fa “di Benedetto XVI, come persona, come carattere, come ethos, una sorta di interlocutore privilegiato dell’ortodossia. E’ il suo intellettualismo, un lato estetizzante e conservatore che ha manifestato in più occasioni”. La sua attenzione, per esempio, al recupero della liturgia tradizionale, “è un elemento che lo mette immediatamente in sintonia con il mondo ortodosso. L’ortodossia ‘è’ la sua liturgia. Rimaniamo commossi e basiti di fronte al misticismo dei riti ortodossi, al loro carico di mistero e di pathos, che appaiono perduti nella funzione cattolica postconciliare. Ratzinger è molto sensibile all’esigenza di riportare il cattolicesimo a questi elementi”.
Il 30 novembre, festa di sant’Andrea, fondatore della chiesa d’oriente, Benedetto XVI e Bartolomeo I si riuniranno in preghiera nella chiesa patriarcale di san Giorgio al Fanar, a Istanbul. Silvia Ronchey pensa a quando “Pio II, il Papa umanista Enea Silvio Piccolomini, nel 1462 (non erano passati ancora dieci anni dalla conquista ottomana di Bisanzio) attraversò Roma con un corteo mai visto, tra ali di folla commossa e in preghiera, per accogliere le reliquie di sant’Andrea, fratello maggiore di san Pietro, portate in salvo da Tommaso Paleologo, l’erede al trono imperiale che a Roma troverà rifugio e morirà. La città, piena di fedeli arrivati a decine di migliaia da tutta Europa, partecipa del ricongiungimento simbolico di Pietro e Andrea, del cristianesimo d’occidente e d’oriente. Nel 2004, Giovanni Paolo II restituì al Patriarca di Costantinopoli, con una solenne cerimonia a San Pietro, le reliquie di due Padri della chiesa, san Gregorio il Teologo e san Giovanni Crisostomo. Un gesto che ha dato nuovo respiro al dialogo. Da Benedetto XVI mi aspetto qualcosa di simile, un gesto antico e forte che solo lui saprà fare. Qualcosa che ricordi come la nostra cultura non sia solo romana o greca, ma anche orientale. Bisanzio è la nostra culla, è la capacità di resistere, perpetuare e integrare. La sua lezione attende ancora di essere riscoperta”.